PADRI APOLOGISTI

  • IL RAPPORTO DEI PADRI APOLOGISTI CON LA FILOSOFIA

 

La letteratura cristiana del II secolo presenta caratteristiche nuove e peculiari rispetto a quella dell’età apostolica e sub-apostolica. Questo è dovuto principalmente a tre fattori:

  1. coloro che si convertono al cristianesimo per la maggior parte appartengono al mondo pagano e sono di cultura e formazione greca.
  2. tra di essi non pochi sono quelli provenienti dall’ambiente colto e intellettuale.
  3. i cristiani sono spesso accusati ingiustamente, circondati da false dicerie, criticati e derisi senza essere, però, adeguatamente conosciuti

Tutto questo fa nascere all’interno della Chiesa il bisogno da un lato di iniziare a “sistematizzare” la propria fede e la propria dottrina e, dall’altro lato, di entrare in dialogo e di confrontarsi con la cultura greca. Nascono così le prime opere, più ampie ed esplicative di quelle del I secolo, finalizzate a tracciare una immagine della religione cristiana più aderente alla verità. Due sono le modalità espressive:

  1. il discorso o lo scritto difensivo, usato principalmento nel rivolgersi ai pagani.
  2. il dialogo, intessuto di polemica, nel rivolgersi ai giudei.

Il tema principalmente trattato è quello di Gesù di Nazareth, Messia, in cui si compiono le profezie dell’AT.

Altre tematiche molto ricorrenti:

  1. dimostrazione della falsità delle dicerie circa la licenziosità dei costumi dei cristiani, l’empietà e la non-partecipazione alla vita pubblica
  2. esposizione positiva del nucleo di verità della religione cristiana, del costume e dell’etica
  3. critica della credenza pagana  negli dei e nei relativi miti
  4. dimostrazione di come la ricerca religiosa di alcuni pensatori greci trovi compimento proprio nel cristianesimo
  5. critica ad alcune caratteristiche della cultura greca.

Molti gli autori:

 

  1. QUADRATO, ateniese. Indirizza una “Apologia” all’imperatore Adriano, tra il 120 e il 130. A noi è però pervenuto un solo frammento dell’opera, contenuto nella “Storia Ecclesiastica” di Eusebio (4,3,1-2).

 

  1. ARISTIDE anch’egli ateniese, contemporaneo di Quadrato e, come lui, scrive rivolgendosi ad Adriano. La finalità della sua opera è quella di dimostrare che ai barbari, ai greci e ai giudei manca il giusto concetto di Dio, posseduto invece dai cristiani. Per far ciò, tenta di usare il linguaggio della filosofia contemporanea; non conoscendola, però, in modo adeguato e approfondito, risulta molto evidente la non-padronanza della materia e perciò la debolezza delle sue argomentazioni. Migliore è invece la parte in cui espone la vita quotidiana dei cristiani. E’ il primo autore a sostenere che solo il cristianesimo porta all’umanità la salvezza.

Anche la sua opera è giunta a noi tramite Eusebio (”Storia Ecclesiastica 4,3,3)

 

  1. GIUSTINO, di Flavia Neapolis (Palestina), di origine pagana. Appassionato ricercatore della verità, si accosta alle Scuole filosofiche più valide del tempo, venendo a stretta contatto con  lo stoicismo, il peripatetismo, il pitagorismo e il platonismo. Trova pace, però, solo dopo l’incontro con il cristianesimo, a cui si converte, forse a Efeso, nel 130 circa. Passa poi a Roma ove fonda una scuola mirata all’annuncio e alla difesa del cristianesimo. Qui si attira le ire del cinico Crescente, il quale lo denuncia come cristiano. Muore martire nel 165.

Tre sono le opere giunte fino a noi, due dirette ad Antonino Pio e al figlio Marco Aurerlio e una all’amico ebreo Trifone.

  1. l’“ Apologia”, del 150 circa, è il primo tentativo cristiano di trovare un terreno di intesa tra cultura pagana e dottrina cristiana; la base è ciò che di veritiero c’è nella filosofia greca e che anche i cristiani possono accogliere con libertà. Secondo Giustino, infatti il Logos è il principio di razionalità universale diffuso in tutto il mondo; è perciò questi che ha ispirato ai filosofi greci la conoscenza della verità, anche se in modo parziale e limitato ( II Apologia 13, 2 ss). Solo con l’incarnazione, però, il Logos ha rivelato la pienezza della verità; grazie a ciò, ora è possibile rintracciare i “semi” presenti nelle dottrine precedenti e valutare con realtà chi è stato empio (cioè chi è vissuto prima di Cristo, ma non secondo il Logos) e chi, invece,  non lo è stato ( I Apologia 42,4). Tipico esempio di questo è, secondo Giustino, Socrate, il quale, messo a morte dai suoi concittadini, può essere letto come anticipazione di Cristo ( II Apologia 10).

Tratta anche del Battesimo e, soprattutto, dell’Eucaristia (par.65-67); non ricusa di trattare anche quegli argomenti uratanti la sensibilità greca, quali il mistero della croce, la morte redentiva di Gesù, Figlio di Dio e la risurrezione della carne.

  1. il “Dialogo con il giudeo Trifone”, di carattere autobiografico, nel quale Giustino narra il suo peregrinare tra le filosofie alla ricerca della verità (2,1-7) e il suo approdare al cristianesimo, grazie all’intervento di un venerando saggio, il quale lo convince circa l’insufficienza della ragione umana per giungere alla verità suprema – e dunque la necessità della rivelazione-; tale convincimento passa attraverso un filosofare di gusto platonico (3,1-5,6), per approdare poi alle Scritture e ai profeti (7,1-2) e, infine, all’annuncio di Cristo, Figlio di Dio Padre (7,3).

Di Giustino si sa anche che prende posizione contro le eresie del tempo e tratta in modo ampio alcuni temi quali la risurrezione, la sovranità universale di Dio, l’anima, ecc., ma queste opere non sono giunte a noi.

A questo punto mi pare si possa ben affermare che, con Giustino, si ha un evidente salto di qualità, sia dal punto di vista dell’approfondimento della dottrina all’interno della Chiesa, sia nel dialogo-confronto-scontro con il contesto culturale del mondo greco-romano. Con lui inizia un nuovo periodo della storia, in cui la fede chiede di essere formulata senza escludere la riflessione razionale su di essa, senza rinnegare la matrice intellettuale del credente, ma anche senza rimanere imbrigliata nelle ambiguità che ogni cultura e ogni filosofia comunque presenta.

 

  1. TAZIANO, di origine orientale, nasce intorno al 125 in Mesopotamia o in Siria. Per questi suoi natali, presenta un acceso nazionalismo antiellenico, anche se all’ellenismo deve tutta la sua formazione culturale. Intorno al 160, a Roma, si converte e si fa discepolo di Giustino. Come il maestro, è anch’egli esponente di primo piano della teologia del Logos, ma non in subordinazione; al contrario, presenta una evidente autonomia di rielaborazione. Due sono le opere a noi giunte:
  2. il “Diatessaron”, che è una sorta di sintesi evangelica. Venne usato come libro liturgico nella Chiesa di Siria fino al V secolo.
  3. il “Discorso ai Greci”, unica sua opera giunta a noi per intero. Scritto fortemente apologetico, si presenta come una violenta accusa alla cultura greca. Secondo Taziano, infatti, essa non porta i tratti della originalità, ma avrebbe le sue radici nel modo “barbaro”, in primo luogo nell’ebraismo. Secondo questo autore, infatti, Omero –considerato il “fondatore” della cultura greca- si sarebbe recato in Egitto e qui sarebbe venuto a conoscenza della vicenda di Mosè, a cui avrebbe poi ampiamente attinto; suffraga questa sua posizione con anche tutta una serie di calcoli cronologici (“Discorso 36”). Questa identica posizione verrà assunta poi anche da Teofilo (“Ad Autolico 3”), a sostegno della “antiquitas” della dottrina cristiana. Anche alla cultura egiziana  e babilonese, poi, il mondo greco sarebbe debitore, soprattutto per quanto riguarda l’astronomia e lo studio delle scienze esatte. Ai greci Taziano riconosce una sola paternità: quella della filosofia. Di essa fa uso per dimostrare come, però, essa altro non sia che un insieme di empietà, di errori e di contraddizioni ( par.2-3); vi contrappone, invece, la semplicità della dottrina cristiana del Logos. Questo Logos, come per Atenagora e Teofilo, è eterno, immanente in Dio, sua sapienza e ragione impersonali; in vista della creazione viene generato come entità personale, al fine di provvedere alla creazione e al .governo del mondo (par.5). Egli  -il Logos- è creatore non solo della materia e dell’uomo, ma anche degli angeli; a questo punto, nel par. 7, Taziano parla della caduta dell’uomo, che divenne mortale, e della schiera degli angeli trasgressori, divenuti demoni. Nel par. 6, invece, polemizzando con gli stoici, tratta il tema della risurrezione.

Globalmente, si può dire che con Taziano si ha un regresso in quanto a dialogo con la cultura greca, a causa da un lato del suo eccessivo e troppo pungente spirito polemico e, dall’altro, per la sua non adeguata conoscenza della stessa filosofia (non di rado, infatti, si riferisce a miti e tradizioni antifilosofiche, più che al pensiero puro dei filosofi). Anche la sua teologia non è eccellente, perché lacunosa e frammentaria. Poco approfondisce la figura di Cristo e la sua opera. Spicccato è invece il suo estremismo, al punto tale che nel 172 circa esce dalla Chiesa e fonda la setta degli “eucratiti”.

 

  1. ATENAGORA, filosofo di Atene, intorno all’anno 177 invia a Marco Aurelio e al figlio Commodo una supplica (“Supplica di Atenagora filosofo cristiano di Atene, a proposito dei cristiani”) nella quale respinge le calunnie lanciate contro la cristianità, chiede parità con la filosofia pagana e auspica tolleranza. In questo autore si nota un elevato tocco nei riguardi della filosofia, là dove scorge in essa la tendenza al monoteismo; espone anche la dottrina cristiana, toccando in particolare i temi di Dio Uno e Trino, la morale (contro le accuse di incesto e di pedofagia) e l’angeologia (10,5). Con Atenagora l’argomentazione filosofica ha certamente guadagnato di qualità e quella teologica di profondità. Rispetto a Giustino, ad esempio, la trattazione del tema di Dio unico, creatore e reggitore del mondo è più analitica (8,1-9,3), c’è un continuo riferirsi a testi poetici e a concetti filosofici greci (par. 5-7) e una tendenza a continuamente dimostrare come la conoscenza greca sia vera, ma parziale, mentre la completezza –e dunque la verità- sia solo nella rivelazione cristiana (7,2). Grande attenzione è riservata anche a Cristo, Logos divino generato dal Padre per operare la creazione del mondo, in contrasto con la mitologia greca (il Verbo, o ragione, era in Dio, mente eterna, fin dal principio; la sua generazione è in vista della creazione; lo stesso si dice dello Spirito Santo: 10,1-5).

 

  1. TEOFILO, colto ellenista, capo della comunità di Antiochia, dopo la sua conversione al cristianesimo avvenuta intorno al 180 a seguito della lettura delle Scritture (1,14), scrive, in attraente greco, “Tre libri ad Autolico”, opera indirizzata all’amico pagano nella quale vuole dimostrargli come l’AT è superiore per priorità, contenuto filosofico e religioso al pensiero greco (I libro). Espone anche la dottrina cristiana, in particolare per quanto riguarda il tema della creazione (II libro; il Vescovo commenta Gen.1, in contrapposizione ai miti pagani e alle inesattezze dei filosofi: 2,12; l’esegesi è, globalmente, di tipo letterale, anche se non mancano tratti allegorizzanti, come i primi tre giorni della creazione a simbolo della Trinità: 2,15). Al riguardo mi pare importante rilevare come Teofilo sia il primo autore a usare il termine “trias” , intendendo con esso  Dio-Logos-Sophia; in particolare, per quanto riguarda il Logos, Teofilo scandisce, usando una terminologia di origine stoica, il rapporto col Padre in due tempi: il primo è immanente ed è quello antecedente la creazione, il secondo è la sua profusione, in vista della creazione. Nel III libro, infine, con una serie di calcoli, Teofilo dimostra come Mosè è anteriore ai greci, rappresentati dal capostipite Omero. Viene qui toccato un tema di fondamentale importanza, cioè quello della “antiquitas”. Per la mentalita greca, infatti, ha valore solo ciò che è antico; il nuovo è sospettabile proprio per il suo stesso essere “novità”, se essa non si fonda su qualcosa che la storia ha già vagliato e messo alla prova. Dunque per Teofilo provare che Mosè è anteriore a Omero significa fornire al paganesimo una ulteriore prova della eccellenza del cristianesimo non solo sulle altre religioni, ma persino su tutta l’intera filosofia greca.
  • LA RIFLESSIONE DEI PADRI APOLOGISTI SUL DIO TRINITARIO E CREATORE

 

Quello della Trinità è un dogma che, nella Chiesa, è stato affermato con chiarezza  solo nel  381, nel Concilio di Costantinopoli.. Il tempo intercorrente tra l’incarnazione e la proclamazione solenne del dogma può essere definito come quello della presa di coscienza intellettuale di ciò che, da subito, è stato intuito.

Il concetto di pluralità delle persone divine è infatti ben radicato nella tradizione apostolica e nella fede popolare: lo prova il NT, la liturgia e la catechesi. Le formule con cui viene espressa sono praticamente fisse: le ritroviamo infatti senza sostanziali differenze in IGNAZIO di Antiochia (Ad E. 18,20; Ad Tral. 9; A Smirn. 1,1s) , nella DIDACHE’ (7,1-3), nel “Martirio di Policarpo (14,3) e nel rito del Battesimo ( rif. a Mt 28,19). Il II secolo si pone come fase pre-riflessiva e pre-teologica della fede cristiana rispetto al dogma della Trinità. Le citazioni della “norma di fede” sono sempre più specifiche e si assiste al passaggio dal cosiddetto “schema diadico” (Padre- Gesù Cristo Signore) allo “schema triadico” (Padre creatore- Figlio Gesù Cristo- Spirito Santo). Una testimonianza per tutte è quella di GIUSTINO (Apol. 21,1; 31,7; 61,10-13; 65; Dial. 63,1; 126,1).

Dunque più che di Trinità, mi pare più corretto parlare di “triade divina” per quanto riguarda il II secolo.

Il primo problema che i Padri apostolici all’inizio e gli apologisti successivamente si trovano a dover affrontare è quello della definizione di un solo Dio creatore. Tale fede poggia sulla idea monoteista fondata nella religione di Israele e viene a essere la linea di separazione fra la Chiesa e il paganesimo.

Per ERMA Dio è creatore, stabilisce le cose e le porta dalla non-esistenza all’esistenza; per CLEMENTE Dio è padre e creatore del cosmo intero; per BARNABA e la DIDACHE’ Dio è il nostro fattore. Agli occhi dei Padri apostolici, dunque, Dio si presenta come Onnipotente ( controllore e sovrano sulla realtà, tutto pervade) e come Padre (è creatore e autore di tutte le cose). Tali idee derivano sia dalla Bibbia sia dal tardo giudaismo; rare sono le eco della filosofia contemporanea (qualche citazione di stampo tardo-stoica in Clemente).

L’infiltrazione del pensiero laico si fa molto più evidente nei Padri apologisti.

In ARISTIDE troviamo, ad esempio, la dimostrazione schematica dell’esistenza di Dio basata sul ragionamento aristotelico del movimento, unitamente a una forte critica del panteismo stoico (Apologia 1;4).

In GIUSTINO l’unità, la trascendenza e il ruolo di Dio creatore sono affermati con un linguaggio stoico-platonizzante (Apologia 15,3); il racconto della Genesi viene affiancato , in quanto a contenuto, al “Timeo“ di Platone (Apologia 59), mentre da quest’ultimo si dissocia nel considerare non eterna la materia. Giustino, infatti, sostiene che è Dio che crea e sostiene l’universo tramite il Logos (Apologia 59; 64).

Che Dio ha creato le cose tramite il Verbo è affermato anche da Taziano (Discorso ai Greci 5,1-3) e da Atenagora (Supplica 4,2). Anche Teofilo sostiene con forza che Dio ha creato tutto ciò che ha voluto e quando ha voluto (Ad Autolico 2,4).

Nel pensiero dei Padri apologisti Dio si presenta perciò come trascendente, senza principio perché increato, immutabile perché immortale, Padre perché creatore, onnipotente perché tutto sostiene, altissimo perché sopra tutte le cose.

Che Dio è unico, Padre e creatore è dunque sfondo e premessa indiscutibile. Il problema sta nell’integrare, dal punto di vista intellettuale, questi dati (eredità, come già detto, del giudaismo) con quelli più recenti della rivelazione specificamente cristiana: 1) Dio si è fatto conoscere in Gesù, Messia, Risorto dai morti; attraverso di Lui ha offerto la salvezza a tutti gli uomini. 2) ha effuso lo Spirito Santo sulla Chiesa.

I Padri apostolici si presentano più come testimoni della fede tradizionale che interpreti che cercano di comprenderla (si potrebbe quasi parlare di uno sviluppo inconscio della teologia!).

Secondo CLEMENTE ROMANO Cristo è preesistente rispetto alla incarnazione, ha parlato per mezzo dello Spirito Santo nei Salmi, ed è la via, mentre lo Spirito Santo sarebbe l’ispiratore dei profeti di Dio, anche quelli dell’AT. Non tocca, però, il problema della relazione reciproca tra i Tre.

Nel II CLEMENTE troviamo che Gesù Cristo è Dio, Figlio del Padre, che è prima di tutto spirito (per questo ci ha salvati) che poi si è fatto carne (così ci ha chiamati).

BARNABA afferma che lo Spirito è l’ispiratore dei profeti e che la carne di Cristo è un vaso dello Spirito Santo, mentre Cristo sarebbe preesistente.

Secondo IGNAZIO lo Spirito Santo è il principio del concepimento verginale di Cristo, il mezzo attraverso il quale Cristo stabilisce e conferma i pastori della Chiesa e il dono mandato dal Salvatore. Cristo, invece, sarebbe il pensiero del Padre e la sua parola, è Dio incarnato, unito in spirito al Padre, preesistente e ingenerato; la sua figliolanza divina inizia con l’incarnazione.

ERMA ,infine, tanto preoccupato della penitenza e della sovranità di Dio, uno e creatore, parla solo due volte della persona di Gesù: prima dell’incarnazione, il Figlio coincideva con lo Spirito Santo, altro dal Padre; dopo l’incarnazione, al Padre si è affiancato il Figlio diletto (lo Spirito Santo) e il servitore (Gesù); Erma presenta anche l’angelo Michele, superiore agli altri, figlio di Dio.

Riassumendo, mi pare si possa schematizzare il pensiero dei Padri apostolici in cinque punti:

  1. Cristo è preesistente
  2. Cristo ha un ruolo nella creazione e nella redenzione (in riferimento anche al ruolo della sapienza nel tardo giudaismo)
  3. in Cristo è presente un elemento divino: è spirito preesistente, una specie di angelo supremo (in riferimento alla angeologia giudaica)
  4. non c’è nessun accenno alla dottrina della Trinità in senso stretto
  5. la formula triadica della Chiesa ha lasciato però ovunque la sua impronta.

I primi che tentano una strutturazione intellettualmente soddisfacente del rapporto tra Cristo e il Padre sono i Padri apologisti.

Due le loro fondamentali affermazioni:

  1. Cristo, preesistente, è il pensiero o la mente del Padre
  2. Cristo, manifestato nella creazione e nella redenzione, è l’espressione di questo pensiero.

Tali immagini non sono estranee né al tardo giudaismo né allo stoicismo.

Per GIUSTINO la ragione è ciò che unisce gli uomini a Dio e dona la possibilità di conoscerlo. Prima della venuta di Cristo, gli uomini erano in possesso solo dei semi del Logos, perciò erano in grado di arrivare solo alla conoscenza di aspetti frammentari della verità (I Apol. 32,8; 2 Apol. 8,1; 10;; 13,3). In Gesù Cristo il :Logos, intelligenza e pensiero razionale del Padre, distinto da lui per nome e per numero, si incarna. Le prove sono contenute nello stesso AT: 1) Abramo alle querce di Mamre; 2) Gen 1,23; 3) Sapienza, come ad esempio in Prov.8,22s. Le funzioni del Logos sono fondamentalmente tre:

  1. l’incarnazione
  2. è agente del Padre nella creazione e nell’ordinamento dell’universo (I Apol.59; 64,5; II Apol. 6,3)
  3. è rivelazione della verità a tutti gli uomini (I Apol. 5,4; 46; 63,10; II Apol. 10,1ss).

Circa la sua natura, Giustino afferma che:

  1. è progenie di Dio (I Apol. 21,1; Dial. 62,4)
  2. è figlio di Dio (Dial. 125,l)
  3. è figlio unico (Dial. 105,1)

Mi pare importante sottolineare che l’autore non si riferisce all’origine ultima del Logos, ma alla sua emanazione ai fini della creazione e della rivelazione. Non vi è separazione tra Padre e Figlio; la distinzione numerica del Padre e del Figlio non comporta infatti alcuna divisione dell’essenza.

Per  TAZIANO il Logos è esistente nel  Padre in quanto sua razionalità, generata dal Padre stesso per un atto della sua volontà (Discorso 5,1). In perfetta armonia con Giustino, anche Taziano ritiene che vi è unità essenziale tra il Padre e il Logos; rispetto al suo maestro, però, sottolinea con maggior vigore il contrasto esistente tra le due condizioni successive del Logos: prima della creazione Dio è solo, perché il Logos è immanente in Lui come sua potenzialità per creare le cose, mentre con la creazione il Logos esce dal Padre come sua “opera primordiale”, dopo di che si fa strumento del Padre per creare e governare l’universo (Disc. 6,7,1ss).

TEOFILO di Antiochia non segue linee molto diverse. Fa però uso di termini tecnici di matrice stoica. Come Giustino, anch’egli ritiene che le teofanie dell’AT siano apparizioni del Logos.

ATENAGORA presenta una formulazione più completa..  Per questo autore:

  1. Dio, non originato, invisibile, crea e abbellisce per mezzo del Verbo l’universo che realmente governa.
  2. il Verbo è Figlio di Dio, Parola di Dio nell’idea e nella realizzazione. Egli è progenie del Padre ma che mai viene all’essere in modo reale, perché Dio, che fin dal principio è intelligenza eterna, ha in sé il suo Verbo eternamente razionale. Il Verbo, dunque, esce fuori nel mondo della materia informe come idea archetipa e forza creatrice (si può trovare una assonanza con Prov. 8,22).

Riassumendo, mi pare si possa perciò dire che, nel pensiero dei Padri apologisti:

  1. “Dio Padre” non è la prima persona della SS. Trinità, bensì l’unica divinità, autore di tutto ciò che esiste.
  2. il Logos diventa Figlio non al momento della sua origine nell’essere della divinità, ma al momento della sua emanazione ai fini della creazione, della rivelazione  e della redenzione. Il fine però non è quello di subordinare il Logos al Padre, ma di difendere il monoteismo. Il Logos è uno nell’essenza col Padre, inseparabile da Lui nel suo essere fondamentale, sia prima sia dopo la sua generazione.

Per quanto riguarda lo Spirito Santo i Padri apologisti ne hanno parlato molto poco, sebbene come è già stato detto, lo schema della fede fosse triadico.

GIUSTINO coordina le tre persone, citando le formule prese dal Battesimo o dall’Eucaristia, ma resta molto confusi il rapporto tra le funzioni del Logos e quelle dello Spirito Santo. Non manca di gettare ponti verso la cultura greca, tentando di trarre dagli scritti di Platone la testimonianza dell’esistenza dello Spirito Santo come terzo essere divino, distinto (I Apol.60,6ss).

Secondo TAZIANO, invece, lo Spirito Santo non è in tutti, ma discende solo su quelli che vivono in modo retto, si unisce alle loro anime e annuncia il futuro nascosto. (Discorso 13,3).

Per ATENAGORA lo Spirito Santo è l’ispiratore dei profeti (Suppl.7,2;  9,1), è emanazione di Dio, da Lui fluisce e a Lui ritorna (Suppl.10,3).

TEOFILO, infine, fa coincidere lo Spirito Santo con la Sapienza ed entra in gioco insieme al Logos nella creazione (si può confrontare con il salmo 33,6).

Riasssumendo, si può affermare che il compito e la condizione dello Spirito Santo è per tutti i Padri apologisti ancora fondamentalmente vago. Certamente per tutti ha, come funzione principale, quella di ispirare i profeti (cfr.Is.11,2). Con la venuta di Cristo la profezia cessa nel popolo ebraico per passare in quello cristiano.. Lo Spirito Santo, dunque, è la fonte di illuminazione che fa del cristianesimo la “filosofia” suprema. Inoltre tutti i Padri riconoscono che lo Spirito Santo è Dio, che condivide con il Verbo la natura divina e che all’interno della triade non vi è subordinazione.

Parola e Spirito si sono manifestati nel tempo e nello spazio, ma, contemporaneamente, sono rimasti all’interno del Padre, senza spezzare la loro sostanziale unità con Lui.

Personalmente mi pare che in questa fase della storia della teologia rispetto al dogma della Trinità vi sia una ormai chiara percezione di essa, che in Dio c’è, contemporaneamente, unità e molteplicità, ma ancora siano rudimentali sia le riflessioni sia gli strumenti intellettuali usati per l’indagine;  il I e il II secolo possono, a mio avviso, essere definiti come il tempo della gestazione del grande dogma della Trinità.

 

  • IL RUOLO DELLA MORALE E DELL’ETICA NELLA RIFLESSIONE DEI PADRI APOLOGISTI

 

Per meglio comprendere il significato e la portata delle pagine in cui i Padri apologisti difendono il comportamento e lo stile di vita dei cristiani, mi pare utile  tentare di inquadrare, per sommi capi, la situazione politica e culturale in cui essi si vengono a trovare.

Il II secolo vede il governo dell’imperatore Traiano dal 98 al 117. Di lui non si sa nulla dalle fonti cristiane. Notizie, invece, ci vengono da Plinio il Giovane. Egli afferma che la fede cristiana si è ormai diffusa, oltrechè nelle città, anche nelle campagne, trovando fedeli di tutte le età e le condizioni sociali. I motivi delle loro condanne sono legati ai sodalizi non riconosciuti dallo stato; quando vengono processati, però, molto spesso si rende evidente che il motivo della denuncia è altro, legato a vendette personali. Sotto il governo di Traiano non ci sono disposizioni generali contro i cristiani; se però vengono denunciati in modo non anonimo e questi non abiurano, il solo essere cristiani è sufficiente per essere puniti e condannati a morte.

Successore di Traiano è Adriano dal 117al 136. Sotto di lui i cristiani possono essere processati solo se c’è chi risponde col proprio nome alla denuncia e solo se essi hanno trasgredito le leggi. Durante il suo governo non si ha notizia di martiri, che tornano invece sotto Antonino Pio, suo successore, imperatore dal 138 al 161.

Dal 161 al 180 è imperatore Marco Aurelio il quale emana un editto favorevole verso i cristiani. Di questo fatto fanno lettura benevola sia Tertulliano sia Apollinare di Gerapoli. In realtà Marco Aurelio nutre un forte disprezzo per i cristiani, come testimoniano le “Memorie”. Nel 176-177, infatti, emana un rescritto non specificatamente contro i cristiani, ma contro di essi facilmente utilizzabile dalle autorità provinciali. Di questo fanno lagnanza Melitone di Sardi e Atenagora di Atene. Durante il suo governo si hanno dei martiri (Giustino e un gruppo di cristiani a Roma; Publio, vescovo di Atene; Sagaride, vescovo di Laodicea; Trasea, vescovo di Eumenia in Frigia; un gruppo di cristiani a Pergamo; Carpo, vescovo di Tiatira; i cristiani di Lione e Vienna). Tali persecuzioni hanno sapore locale. Non sono infatti indotte da Roma, perché la situazione giuridica non è mutata rispetto al tempo di Adriano. E’ piuttosto l’opinione pubblica che va evolvendosi a danno dei cristiani. Le manifestazioni contro di loro, infatti, si fanno sempre più frequenti e violente. Le popolazioni sono stressate dalle interminabili campagne militari, da gravi oneri, dalla continua minaccia di invasione dei nemici, da catastrofi naturali (peste e inondazione del Tevere): i cristiani, perciò, divengono una vera e propria “valvola di sfogo”. D’altro canto essi hanno attirano l’attenzione con la loro polemica contro gli gnostici, l’opposizione verso la cultura pagana e lo stato romano.

A Marco Aurelio succede il figlio Commodo, dal 180 al 192. Personalmente mostra tolleranza nei confronti dei cristiani, tanto che alcuni possono persino occupare cariche negli uffici di corte e fa tornare quelli mandati ai lavori forzati nelle miniere di Sicilia dal padre. Non emana, però, nuove direttive circa il comportamento delle autorità statali nei loro confronti, cosicchè anche sotto il suo governo si hanno condanne a morte, martrii e persecuzioni.

Il cristianesimo comincia a suscitare interesse anche nell’ambiente intellettuale. Non pochi sono gli autori che scrivono libelli, satire, ecc., a cui i cristiani reagiscono giocando di difesa e di contrattacco.

Se gli autori del I secolo quali Tacito, Svetonio ed Epitteto dimostrano di non conoscere davvero il cristianesimo, non così può essere detto degli intellettuali del II secolo. Essi fanno propria l’accusa delle masse di ateismo e di irreligiosità (uno per tutti, Frontone), senza però constatare personalmente le dicerie –false!-. Un altro autore degno di nota è Luciano di Samosata, il quale non colpisce solo i cristiani, ma tutti i suoi contemporanei nelle loro debolezze. Per quanto riguarda i cristiani in particolare, li ritiene semplicemente stolti. Osserva il loro comportamento, ma non legge i loro scritti né si preoccupa di conoscere il loro mondo interiore. Fa del cristianesimo una caricatura, dimostrando, però, alla fine, superficialità e ignoranza.

L’autore che spicca su tutti gli altri è, senza dubbio, Celso . Scrive un’opera importante, andata però perduta nella sua interezza. In Origene si trovano ampi stralci di essa, cosicchè è possibile farsi un’idea dei concetti principali che sono alla base di questo suo lavoro. Improntata al medio-platonismo, Dio è ritenuto assolutamente trascendente, primo, supremo, immutabile e immateriale, che va venerato più nella singola anima che non in forme di culto stabilite e comunitarie. Molte divinità minori pretendono il culto dagli uomini: a loro la divinità suprema ha affidato compiti diversi (astri, divinità della stirpe, e dei culti di un dato popolo, demoni, ecc). Vicino ai semidei è il sovrano terreno. Da tutto questo scaturisce il rifiuto del monoteismo e la tolleranza per le religioni popolari e i culti misterici. Ancora, perché compaia una religione, questa deve appoggiarsi o a postulati etnici o a culti locali. Ebbene, il cristianesimo non presenta alcuna di queste caratteristiche. Celso prende contatto con i cristiani, studia l'AT, il Vangelo, la letteratura cristiana; avvicina le fonti giudaiche e gli scritti della polemica giudeo-cristiana  e giunge a scrivere un’opera dotta e ricca di materiale, nella quale espone non solo nozioni teoretiche, ma anche trae conseguenze pratiche. I risultati sono assolutamente negativi, esposti in forma tagliente e aggressiva. Rifiuta la dottrina della creazione e il concetto della rivelazione, come anche quello della incarnazione. Gesù è definito ciarlatano, millantatore, mentitore, uomo dalla condotta tutt’altro che ineccepibile. Caratterizza negativamente anche i cristiani e il loro modo di vivere: li giudica uomini intellettualmente limitati, contrari alla cultura greca, alla tradizione nel culto, al suo regolamento e alla legge non scritta, fedeli di una religione che è da “imbecilli”. Per tutto questo auspica un intervento da parte dello Stato. I cristiani non si sentono toccati in modo radicale da questa opera per la qualità della lettura fatta sia di Gesù, sia di loro, sia della loro fede. Forte presa esercita, invece, sul mondo pagano, soprattutto quello colto, che spesso non conosce in modo diretto e personale il cristianesimo. Tutto ciò ha come effetto di incrementare ulteriormente l’ostilità al cristianesimo che, per reazione, si fortifica, mentre la “pietà pagana” non rinasce comunque.

All’interno di questo contesto nascono quelle opere dei Padri apologisti miranti a difendere la condotta dei cristiani di fronte alle accuse di empietà, disonestà nei confronti dello Stato, disinteresse per la vita pubblica, incesto e pedofagia.

Parte ho già accennato nella prima domanda, soprattutto per quanto riguarda Atenagora.

L’opera che, però, emerge sopra tutte le altre al riguardo mi pare, certamente, la LETTERA A DIOGNETO, di autore ignoto, scritta probabilmente ad Alessandria (qualcuno ipotizza, però, Roma), in data incerta (140? 200?). Composta di 12 capitoli, nel primo, introduttivo, vengono affrontate tre questioni:

  1. chi è il Dio dei cristiani e quali sono le sue caratteristiche
  2. che cosa è l’amore per il prossimo
  3. perché la fede non si è fatta conoscere prima

Nei cap. 2-4 viene affermato che gli dei sono opera degli uomini, mentre il Dio dei giudei è quello vero, ma adorato in modo sbagliato, superstizioso e secondo rigide meticolosità.

Nei cap. 5-6 viene esposta la condotta dei cristiani.

Nei cap. 7-8 viene presentato il Dio cristiano, creatore, onnipotente, invisibile e buono.

Nei cap.9-10 viene presentato il piano salvifico di Dio, resosi manifesto in un tempo preciso.

I cap. 11 e 12 sono, poi, secondo alcuni, delle aggiunte successive da parte di altri autori.

Non è questa “Lettera” una semplice apologia, ma un’opera di propaganda del cristianesimo. Sia la modalità di porre le domande sia quella di fornire risposte è tipica dello stile apologetico.

Anche Giustino dedica una sezione della sua Apologia (par. 66) alla dimensione etica del cristiano, là dove dopo aver parlato del sacrificio eucaristico come la più compiuta manifestazione del culto razionale, afferma che il cristiano partecipa ad esso non solo attraverso la liturgia, ma anche nella concretezza della sua esistenza, uniformandosi ai precetti del Logos e arrivando, se necessario, a testimoniare con il martirio la propria adesione alla vera religione e al vero culto. Il cristiano, nel pensiero di Giustino, è colui che crede che la piena rivelazione e la salvezza operate dal Logos sono dei criteri di giudizio già pronunciato su questo mondo; non su altra linea sarà poi quello che attende ogni uomo dopo la morte e alla fine dei tempi, quando Cristo giudice tornerà una seconda volta. Per questo il comportamento del credente non è regolato da una generica “teologia morale”, ma ha uno spessore teologico intrinseco, derivante dal fatto di essere partecipazione al culto razionale, conformità alla rivelazione del Logos, segno e anticipazione dell’escatologia. Questa mi pare una dimensione importante, perché l’etica cristiana non si “riduce” a solo esempio o testimonianza, ma diviene preciso paradigma teologico della dottrina cristiana.