INTRODUZIONE

 

L’attuale contesto globalizzato nel quale ormai tutti viviamo pone il problema della convivenza nello stesso territorio di persone appartenenti a etnie e culture assolutamente differenti. Il fattore religioso riveste un ruolo di particolare rilevanza nel favorire o nell’ostacolare la convivenza pacifica tra persone che professano un credo diverso; a seconda infatti della visione soprannaturale che si ha, si può considerare l’altro come una minaccia alla propria identità, come una preda da conquistare, come qualcuno da convertire… o come un fratello con il quale, proprio per la sua diversità,  sono chiamata a instaurare una relazione di scambio e di  arricchimento, sulla base di una reciproca stima. Naturalmente questo non in un contesto di indefinito irenismo, ma nella assoluta salvaguardia della propria identità.

Il contatto ormai quotidiano con persone appartenenti a fedi diverse fa sì inoltre che la domanda sul valore salvifico delle religioni non cristiane non riguardi più solo  ambienti specializzati quali le accademie teologiche, oppure chi, per vocazione, si reca in terre lontane per portare l’annuncio del Vangelo. La domanda se il cristianesimo è soltanto una delle religioni del nostro pianeta – e dunque la via salvifica che propone è solo una delle possibili- è rivolta oggi a ogni discepolo di Gesù, chiamato a rendere ragione, prima di tutto a se stesso, poi ai propri fratelli, delle motivazioni della propria sequela di Cristo, riflettendo in maniera matura e personale sui concetti di verità e di universalità che la sua fede rivendica, nonché sulla relazione tra la propria fede e gli altri cammini religiosi, considerati all’interno dell’unico piano di salvezza che Dio ha sull’intera umanità. Questo comporta innanzitutto un approfondimento della propria fede, come anche una conoscenza delle altre religioni, conoscenza rispettosa ma anche puntuale dei suoi contenuti, nonché un esame sia delle convergenze sia delle divergenze, affinché il dialogo, poggiato su basi solide, risulti fecondo. 

I pericoli non sono pochi, soprattutto per tutti coloro la cui fede non è sempre ragionevolmente motivata in maniera adeguata, tuttavia proprio il pericolo stesso può diventare positiva sfida per una fede più adulta e matura, capace di contemplare quell’amore di Dio che abbraccio tutti gli uomini e che ciascuno conduce, attraverso il Figlio Gesù Cristo.

 

PRIMA DEL CONCILIO VATICANO II

 

Fino al Concilio Vaticano II i teologi cristiani, appartenenti sia alle Chiese cattolica e ortodossa sia alle comunità cristiane della Riforma, erano piuttosto concordi nel sostenere che  solo nella religione cristiana è presente una autentica via di salvezza, che si realizza nel riconoscimento di Gesù Cristo come unico autore di essa. Questo non significa che tutti i seguaci delle altre religioni fossero destinati alla perdizione, ma piuttosto che anche per essi era possibile la salvezza grazie agli infiniti meriti di Gesù Cristo, attraverso il cosiddetto “battesimo di desiderio”, nonostante la pratica di false religioni quali l’islamismo, il buddismo, l’induismo, ecc.

Negli anni immediatamente antecedenti il Vaticano II però  ci furono teologi che iniziarono a domandarsi se, dal punto di vista soteriologico, ogni religione fosse un cammino di salvezza, oppure se contenesse soltanto alcuni elementi –pochi ma reali-, utili alla salvezza. L’affermazione: “Solo nel cristianesimo c’è salvezza” si trasformò in domanda: “Quale religione può essere considerata via sicura e certa di salvezza?”. Gli aggettivi “sicura” e “certa” sono naturalmente di fondamentale importanza.

Un esponente della prima corrente di pensiero –cioè quella secondo la quale ogni religione è cammino di salvezza- è Karl Rahner. Egli si basa sulla certezza che “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati”, come dice l’apostolo Paolo (1 Tim 2,4). L’intera storia è per questo teologo sotto l’azione diretta di Dio; se lo è la storia, a maggior ragione lo è la vita di ciascun singolo uomo. Ciò significa che ogni essere umano può contare, solo per il fatto stesso di esistere, non solo sulla propria natura, ma anche sulla grazia di Dio in modo che, quando si apre alla relazione soprannaturale rapportandosi a Dio, può vivere un atteggiamento di autentica fede, sebbene implicita. Tutte le religioni sono per Ranher volute da Dio come via di salvezza, ovviamente imperfetta, perché in esse è presente il mistero di Cristo, implicito, ma reale ed effettivo, che spinge all’amore verso Dio e verso il prossimo. Naturalmente i fedeli di queste religioni sono chiamati a giungere anch’essi alla perfetta conoscenza di Dio, che si ha nel Vangelo, e a vivere l’amore verso Dio e verso il prossimo in Cristo e per Cristo. Più che un cammino di ricerca di Dio, per questo teologo l’uomo è chiamato a compiere un cammino di ricerca di Cristo, nel quale unicamente  la conoscenza di Dio è consapevole e riflessa.

Jean Daniélou è invece un teologo che fa sua piuttosto la seconda tesi, secondo la quale le religioni non cristiane contengono solo alcuni elementi utili alla salvezza. In particolare egli distingue tra religione cosmica e religione nella storia. Dio si manifesta indubbiamente nella creazione, ma tale rivelazione non solo è imperfetta, ma non è nemmeno quella per la quale l’uomo è stato fatto. La creazione è propedeutica alla storia, secondo una linea di non-continuità: da un ordine naturale di alleanza cosmica l’uomo è chiamato a passare a un ordine soprannaturale di alleanza storica, alla quale  è chiamato a convertirsi. E’ esattamente questo ciò che distingue la religione giudeo-cristiana da tutte le altre religioni.

Posizione affine è quella di Hans Urs von Balthasar, secondo il quale le religioni non cristiane vanno divise in religioni che hanno a fondamento una rivelazione storica come l’ebraismo e l’islamismo dalle religioni orientali in cui il volto di Dio è piuttosto indefinito, meglio identificabile con il titolo di “Realtà suprema”. A questa divisione corrisponde un movimento opposto, cioè di Dio che cerca l’uomo nelle prime e dell’uomo che cerca di salvarsi con i suoi sforzi nelle seconde. 

Sebbene il Magistero ecclesiale non abbia preso esplicita posizione nei confronti delle varie posizioni dei teologi appartenenti alle due correnti di pensiero –di cui Rahner, Daniélou e von Balthasar sono solo esempi-, durante il Concilio Vaticano II ha dimostrato, con la dichiarazione Nostra Aetate, di ritenere più corretta la seconda linea di pensiero, riconoscendo la validità delle religioni non cristiane non tanto per il fatto di tendere al Trascendente, quanto piuttosto per alcuni elementi di verità che contengono.

 

IL CONCILIO VATICANO II

 

Firmata da Paolo VI e dai Padri conciliari il 28 ottobre 1965, la Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane si struttura in 4 paragrafi e una previa Introduzione, nella quale vengono fatte affermazioni universali di fondamentale importanza. Viene infatti detto che gli uomini hanno una medesima origine, Dio, che tutti ha creato e posto sulla terra; hanno però anche un unico fine, Dio, la cui bontà, provvidenza e volontà di salvezza abbraccia tutti. Le religioni poi sono considerate come il tentativo di risposta all’inquietudine del cuore umano e al suo bisogno di risposte agli enigmi della sua condizione. Fatta questa premessa, la Nostra Aetate, nel  paragrafo successivo, prende in considerazione le religioni non cristiane facendo esplicito riferimento all’induismo, al buddismo e alle altre religioni; rileva come presso tutti i popoli c’è la percezione di una forza arcana che interagisce con la storia e con la vita degli uomini e a cui viene dato il nome di “Divinità Suprema”, quando non anche di “Padre”. La Chiesa cattolica non respinge nulla di quanto è vero e santo in queste religioni e rispetta tutti quei modi di essere e di fare che riflettono un raggio di quella luce che illumina tutti gli uomini; d’altro canto non può non annunciare, con la parola e con la testimonianza della vita, Gesù Cristo, nel quale la vita religiosa trova pienezza e nel quale Dio ha riconciliato a Sé ogni cosa. Il paragrafo successivo pende in considerazione invece la religione musulmana, alla quale la Chiesa cattolica guarda con stima a motivo dell’adorazione tributata all’unico Dio vivente, misericordioso, creatore, ai cui decreti si è sottomessi come sottomesso fu Abramo; altri motivi di stima sono la venerazione a Gesù –sebbene ritenuto solo un profeta-, l’amore e la devozione alla Vergine Maria, l’attesa del giudizio finale, la fede nella risurrezione, il culto a Dio tramite preghiere, elemosine e digiuni, nonché per   una vita vissuta con moralità. Sia i cristiani sia i musulmani sono invitati a dimenticare le forti inimicizie del passato, esercitando nell’oggi una reciproca comprensione e soprattutto a impegnarsi per promuovere insieme la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà. Il penultimo paragrafo tratta poi delle relazioni con la religione giudaica, alla quale la Chiesa cattolica si sente legata in maniera particolare innanzitutto perché riconosce gli inizi della sua fede e della sua elezione nell’Antico Testamento, ma poi anche perché da essi provengono, secondo la carne, Gesù e Maria. Secondo l’insegnamento di S. Paolo, gli ebrei sono l’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico, cioè i popoli pagani, e sebbene essi non abbiano riconosciuto Gesù, Dio non ha mai revocato né i doni né l’alleanza con essi stipulata. Considerato perciò l’enorme patrimonio che unisce cristiani ed ebrei, la Dichiarazione conciliare invita a una mutua conoscenza e stima soprattutto attraverso lo studio biblico e teologico, nonché attraverso un dialogo autenticamente fraterno. Segue poi  l’invito a una purificazione della memoria e la condanna di ogni forma di antisemitismo. La Nostra Aetate termina  con un paragrafo riguardante la fraternità universale, nel quale si afferma che non si può invocare Dio come Padre se non ci si riconosce tutti fratelli.

 

IL POST-CONCILIO

 

 Se questa è la nuova impronta impressa dal Concilio Vaticano II,  negli anni successivi il Magistero ha avvertito la necessità di intervenire per correggere tendenze non corrette che andavano facendosi strada nel dialogo interreligioso. Documenti quali “Il cristianesimo e le religioni” della Commissione Teologica Internazionale e “Dominus Iesus” della Congregazione per la Dottrina della Fede sono un esempio. In tali documenti viene analizzata con molta lucidità la situazione odierna con le spinte culturali che la caratterizzano: fenomeni migratori e reti di comunicazioni molto fitte, che portano anche le religioni a fronteggiarsi, suscitando o desiderio di autentico confronto o dialogo o pericoloso fondamentalismo conflittuale; momento di stanchezza e di debolezza della cultura occidentale nei confronti della verità e della sua relazione con la libertà, che porta a perdere la percezione della oggettività e universalità della prima e all’imporsi di affermazioni teoriche e pratiche relativistiche; l’avanzare di un sincretismo indistinto e gnosticheggiante di “nuovi movimenti religiosi” quali la New Age, per citarne uno. Con forza perciò la cristologia si è trovata rimessa al centro circa il tema della unicità e universalità di Gesù Cristo unico Salvatore. Se il cosiddetto “ecclesiocentrismo esclusivista” non è più sostenuto dai teologi cattolici -Piero Coda afferma con chiarezza che in realtà questa posizione è estranea alla grande Tradizione ecclesiale-, altre due posizioni sono andate affermandosi: il “teocentrismo inclusivista”, secondo il quale le varie religioni danno accesso alla salvezza, ma in maniera non autonoma, perché unico Salvatore universale è Gesù; il “teocentrismo”, secondo il quale Gesù non è costitutivo ma solo normativo per la salvezza, è cioè paradigma per tutti i mediatori delle altre religioni (nelle sue posizioni più estreme arriva ad affermare che possono esserci anche più mediatori di salvezza, togliendo a Cristo anche il valore normativo). Approfondendo la cristologia inclusivista e collocandola nell’orizzonte trinitario nel quale si realizza la mediazione di Gesù Cristo unico Salvatore si possono fare le seguenti quattro affermazioni:

  1. Dio Padre ha un disegno universale di salvezza, come esplicitamente scrive S. Paolo in 1Tm 2,3-4, che realizza inviando il Figlio unigenito nel mondo “perché il mondo si salvi per mezzo di Lui” (Gv 3,17).
  2. Il Nuovo Testamento in più passi proclama l’unicità della mediazione di Gesù Cristo, che realizza escatologicamente il disegno del Padre: dalla creazione (1Cor 8,6; Eb 1,2; Col 1,15-20) all’Incarnazione (Gv 1,9.14; eb 1,1-4) alla Redenzione (1Tm 2,6) alla ricapitolazione di tutto in Lui (Ef 1,10). Tale è il kerygma della Chiesa apostolica, tale la predicazione dei Padri della Chiesa.
  3. L’azione salvifica di Gesù non può essere dissociata dall’azione universale dello Spirito Santo che a Cristo conduce e da Lui si effonde su ogni uomo, rendendo così efficace la salvezza di ciascuno. E’ per la presenza e l’azione dello Spirito Santo che si comprende come in tutto ciò che di buono e di vero c’è nelle varie religioni non cristiane sia propedeutico alla piena rivelazione di Dio, che si ha in Gesù. Al contempo è per l’evento di Gesù Cristo che si comprende come lo Spirito Santo sia presente in tali religioni non cristiane 
  4. La Chiesa è il “Corpo di Cristo” e solo in essa è data la presenza dello Spirito Santo in tutta la sua pienezza. Dunque appartenere alla Chiesa significa poter fruire dei doni di grazia in maniera piena. Cristo le ha conferito il mandato di annunciare l’avvento del Regno di Dio a tutte le genti: per questo essa è sacramento universale di salvezza per l’interongenere umano. Ciò non toglie però che possa esserci salvezza fuori della Chiesa per tutti coloro che vivono secondo coscienza, a motivo della presenza universale dello Spirito, che mai è disgiunto dal mistero pasquale di Gesù Cristo, come afferma anche Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio al n° 55 o il Documento “Il Cristianesimo e le religioni” al n° 84. Rinunciare però all’annuncio missionario per la Chiesa è privare l’umanità della possibilità di trovare la risposta piena e definitiva al bisogno di Dio che essa ha, nonché delle risposte ultime e autentiche che travagliano il cuore di ogni uomo. Annuncio che è prima di tutto testimonianza di vita vissuta dell’intera comunità cristiana, perché altrimenti, come dice il Documento “Il cristianesimo e le religioni” ai n° 102 e 104: “Il cristiano di oggi deve imparare a vivere nel rispetto per le diverse religioni […] ogni forma di evangelizzazione che non corrisponde al messaggio, alla vita, alla morte e risurrezione di Cristo, compromette questo messaggio e, in ultima analisi, Gesù Cristo stesso”.  

 

ASSISI 1986

 

Luminoso esempio di  dialogo interreligioso è stato l’evento di Assisi del 1986 che ha visto riuniti i capi di tutte le religioni mondiali per implorare da Dio il dono della pace. Giovanni Paolo II  si è presentato con chiarezza e umiltà nella sua identità di cristiano (“…vorrei esprimere i miei sentimenti, come un fratello e un amico, ma anche come un credente in Gesù Cristo […]Professo di nuovo la mia convinzione , condivisa da tutti i cristiani, che in Gesù Cristo, quale Salvatore di tutti, è da ricercare la vera pace..”). D’altro lato, come ebbe a dire 2 mesi dopo alla Curia Romana, 

“…in quella Giornata […] sembrava per un attimo esprimersi anche visibilmente l’unità nascosta ma radicale che il Verbo divino[…]

 Come non c’è uomo né donna che non porti con sé il segno della sua origine divina, così non c’è nessuno che possa rimanere al di fuori o ai margini dell’opera salvifica di Gesù Cristo, ‘morto per tutti’, e quindi ‘Salvatore del mondo’. ‘Perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio solo conosce, con il mistero pasquale”

 

Ha poi anche delineato chiaramente il compito della Chiesa, chiamata a vivere il suo essere sacramento universale di salvezza : 

 

“In questo grande disegno di Dio sull’umanità […] la Chiesa è chiamata a operare con tutte le sue forze (l’evangelizzazione, la preghiera, il dialogo) perché si ricompongano le fratture e le divisioni degli uomini, che li allontanano dal loro Principio e Fine e li rendono ostili tra di loro

 [..] La Chiesa infatti, cioè noi stessi, abbiamo meglio capito, alla luce di quell’avvenimento, qual è il vero senso del mistero di unità e riconciliazione che il Signore ci ha affidato, e che Egli ha esercitato per primo, quando ha offerto la sua vita “non soltanto per il popolo, ma anche per unire i figli di Dio che erano dispersi”.

 

CONCLUSIONE

 

Se le circostanze storiche stanno spingendo i popoli a una convivenza  più ravvicinata imponendo loro un confronto culturale e religioso, c’è però un motivo molto più profondo che porta i cristiani a desiderare di instaurare un dialogo pacifico e fecondo con i fratelli che professano una diversa fede religiosa: è la volontà di Dio di fare di tutti un’unica famiglia, non nell’uniformità ma nell’unità. Il dialogo dunque si propone non soltanto in vista della pace o di altri obiettivi legati al comune vivere sulla terra, ma come strumento per una contemplazione dell’amore di Dio che tutti conduce. La volontà di incontro e di dialogo tuttavia non è sufficiente per inoltrarsi in questo cammino, perché la mancanza di una adeguata formazione porta con sé il rischio della superficialità e del sincretismo, elementi quanto mai dannosi per qualunque credo religioso. E’perciò fondamentale tener presenti sei aspetti:

  1. possedere una forte identità religiosa, frutto di una conoscenza approfondita della propria fede, che si raggiunge da un lato con una adeguata formazione intellettuale e dall’altra con una vita vissuta in maniera attiva all’interno della Chiesa
  2. conoscere in maniera adeguata il credo religioso dell’altro, mediante uno studio della dottrina della sua tradizione religiosa e mediante un contatto diretto con esponenti adeguatamente preparati
  3. iniziare a dialogare ponendosi in un atteggiamento di ascolto profondo e rispettoso, eliminando qualunque pur minima volontà di imposizione; questa incondizionata accoglienza reciproca infatti fa sì che si possa passare dalla condivisione di ciò che già unisce al confronto su ciò che comune non è
  4. percorrere non solo la via del dialogo e del confronto, ma anche quella della spiritualità, intesa come dimensione profonda dello spirito umano che scende nella profondità di sé e si apre al Trascendente. Se per i cristiani, gli ebrei e i Musulmani infatti Dio ha un volto personale, per la tradizione buddista ad esempio non c’è visione personalistica del divino. E’ quindi importante partire da quel terreno comune che è la discesa nell’interiorità, in cui lo Spirito di Dio è presente e opera
  5. tenere desta la consapevolezza che l’ebraismo, pur  essendo una religione non cristiana, non può essere messa alla pari con le altre, perché esso è la radice santa dalla quale nasce la Chiesa di Cristo
  6. sapere che a Gerusalemme il cielo e la terra si toccano. Così al riguardo il teologo Piero Coda scrive: 

“Gerusalemme è la città santa, è il grande segno, il crocevia di questo progetto di salvezza universale di Dio […] Gerusalemme è dietro di noi ma è anche davanti a noi. Gerusalemme è il nostro futuro. Il Salmo 86, che mi riempie sempre di stupore e di gratitudine, leggendolo anche in riferimento a ciò che vive oggi l’umanità soprattutto nel dialogo tra le religioni, dice profeticamente: “Il Signore scriverà nel   libro dei popoli: l’uno e l’altro è nato in essa, e danzando canteranno: sono in te tutte le mie sorgenti”. Gerusalemme è il luogo d’incontro tra i popoli, perché è il luogo dell’avvento di Dio in mezzo agli uomini, luogo del ritorno glorioso di Cristo. Per questo Gerusalemme è per noi non solo un riferimento alla radice ma un’apertura al futuro, all’escaton, in invito a risvegliare nella coscienza cristiana questo senso del cammino, quest’attesa del ritorno del Messia e dell’unità fra i popoli”.