Il Buddhismo è normalmente diviso in due gruppi principali: il Mahayana e il Theravada, quest'ultimo ritenuto il più vicino al Buddhismo originario. All'interno di questi due gruppi principali si sono formate altre suddivisioni. E' pressoché impossibile fare un discorso che vada bene per tutti. E' però possibile limitare il discorso a quegli aspetti che sono accettati in tutte le correnti e cioè le cosiddette Quattro Nobili Verità. Questi punti della dottrina, presentati dal Buddha nel suo primo discorso, fanno da fondamento ad ogni corrente.

 

Il discorso sul digiuno, e più in generale, il rapporto con il cibo, può essere analizzato all'interno di questo nucleo originario. Ma ciò pone un ulteriore problema: è necessario avere una chiave di lettura per poter dire come il Buddhismo guarda a se stesso e di conseguenza come vanno interpretate le sue affermazioni.

 

 

Che cosa è il Buddhismo

 

Da quando l'Occidente ha incominciato a studiare il Buddhismo si è sempre chiesto se è una religione o una filosofia o una morale. A mio parere è una ricerca inconcludente, perché la risposta finale dipende da quali sono i propri presupposti di partenza. 

E alla fin fine, qualunque sia la risposta, è una questione che non interessa ad un buddhista: ciò che è importante è di trovare delle risposte ad una serie di problemi che sono gli stessi che sono stati i punti di partenza della ricerca iniziata da Siddhārtha, il futuro Buddha. 

Siddhārtha inizia la sua ricerca quando si rende conto che la sofferenza nella forma della malattia, vecchiaia e morte entrerà certamente nella sua vita. Si pone quindi la domanda: la condizione umana è una situazione di sofferenza o è possibile trovare un modo di vivere che vinca la sofferenza?

Lo scopo della ricerca è quindi eminentemente pratico. La parabola più famosa al riguardo è quella dell'uomo colpito da una freccia. Non è importante sapere chi l'ha scagliata, con quale arco e con quale intenzione. Una sola cosa è importante: togliere la freccia e toglierla nel modo corretto per non creare ulteriori danni.

Un confronto veloce con s. Giovanni della Croce potrebbe chiarire ulteriormente questo aspetto. Nel descrivere il cammino spirituale questo santo descrive il “lavoro” compiuto da Dio e quello compiuto dall'uomo. Al Buddha interessa solo questo secondo aspetto, del primo non dice nulla.

 

Si possono fare due osservazioni. La prima riguarda il tema del digiuno: nella prospettiva descritta, il digiuno, inteso come umiliarsi di fronte a Dio per il peccato commesso, non ha alcun senso. Un digiuno inteso come ascesi potrebbe avere senso, ma lo vedremo in seguito.

La seconda osservazione è che la prospettiva pratica di cui si è parlato permette al Buddha di non esporsi su temi come l'esistenza di Dio, l'anima ecc. 

Lo fa per non cadere nelle teorie del suo tempo circa questi temi, teorie che considera sbagliate perché insidiano la pratica. 

Ma lo fa anche per la prospettiva pratica che non si può parlare ad altri di realtà di cui essi non hanno una esperienza immediata. Man mano che uno cresce nella vita spirituale le scoprirà per conto suo. Il Buddha infatti non nega una Realtà Ultima: il Nirvana non è impermanente -è quindi eterno-, lo stesso Dharma preesiste al Buddha e gli si svela quando egli è pronto ad accoglierlo. Questo spiega anche perché quando si accenna a questi tipi di realtà non si tenta mai di darne una descrizione positiva, se ne parla negando gli aspetti di sofferenza che gli uomini sperimentano nella loro vita. In questo modo si indica che esiste una realtà diversa da quella che si sperimenta normalmente, ma proprio perché non fa parte dell'esperienza comune non se ne può parlare. La si può solo ricercare e conoscerla facendone esperienza.

 

 

Il digiuno come ascesi

 

Si può partire dall'esperienza stessa del Buddha. Quando  Siddhārtha inizia la sua ricerca diventa discepolo di alcuni maestri famosi dell'epoca. Dopo aver imparato tutto quello che essi potevano insegnare si accorge che il Nirvana è ancora distante. Inizia allora una ricerca personale senza una guida.

Va in foresta e qui sperimenta tutte le forme di penitenza di cui sente parlare: si può dire che la penitenza più importante riguarda il cibo, che egli, progressivamente riduce fino al punto di essere in pericolo di morire di fame. 

Giunto a questo punto rientra in se stesso e valuta la situazione: deve continuare sulla strada che ha percorso durante quei sei anni in foresta e morire di fame o deve intraprendere una strada diversa? Da una parte ha la proposta della corrente jainista che sosteneva che per giungere alla liberazione l'asceta doveva lasciarsi morire di fame, dall'altra ha la sua esperienza. Secondo il criterio pratico che gli è caratteristico,  Siddhārtha dà la preminenza alla sua esperienza: si guarda indietro e valuta i risultati di questo periodo. Quello che scopre non è confortante: non solo non ha sperimentato il Nirvana, ma si ritrova più o meno al punto di partenza. Le pulsioni, le passioni negative erano ancora presenti.

La conclusione è ovvia: questa strada di penitenza è inconcludente. Va abbandonata e si deve cercare in una direzione diversa. Accetta quindi il cibo che gli offre una donna -con grande scandalo dei suoi compagni che lo abbandonano- ed inizia qualcosa di completamente nuovo. Si ricorda di una esperienza di meditazione che aveva provato da bambino ed esperimenta con questa forma di meditazione giungendo al risultato desiderato.

 

Sono opportune ora alcune riflessioni. In base alla propria esperienza, il Buddha elabora la dottrina del sentiero di mezzo. Questo significa certamente che gli estremi, le esagerazioni vanno rifiutate, in un modo più profondo questa dottrina significa che in ogni situazione va ricercata la cosa più corretta.

Per quanto riguarda il digiuno, viene rifiutato nella sua forma esagerata. Nella prospettiva della cosa più corretta a secondo della situazione può essere accettato, ma non è questo, o qualsiasi altra forma di penitenza, che porta alla liberazione. Quello che è veramente liberatorio è quell'atteggiamento che il Buddha scopre nella meditazione. In questa prospettiva, digiuno, penitenza sono aspetti secondari, che ognuno può usare o meno a secondo che gli servano. Invece è fondamentale insistere sull'atteggiamento interiore.

Quello che è avvenuto può essere espresso in questo modo. Quando  Siddhārtha si dedicava alla penitenza era convinto che il risultato dipendesse dal suo sforzo. Nella meditazione invece scopre che il Nirvana o il Dharma non sono realtà che si possono conquistare, piuttosto sono realtà che si manifestano da se stesse alla persona che è pronta ad accoglierle. Il desiderio di raggiungerle, o meglio, l'attaccamento al desiderio di raggiungerle o conquistarle non porta da nessuna parte. É l'atteggiamento di umiltà, apertura, comunione che prepara la persona ad accoglierle. 

 

Da qui nascono due aspetti che sono fondamentali nel Buddhismo. La meditazione, si può dire, come unico strumento per sperimentare il Nirvana e la dottrina della mancanza di un sé. 

Brevemente, la meditazione è di due tipi. Il primo aspetto -preparatorio per il secondo- è lo sviluppo della tranquillità: quando in occidente si insegna meditazione buddhista, in genere si insegna questo aspetto. Il secondo, che è quello fondamentale, è lo sviluppo della visione profonda. Detto in altre parole: ci si rende conto, tramite una esperienza interiore, mai in modo intellettuale, delle tre caratteristiche della realtà: impermanenza, dolore, mancanza di sé.

In questa prospettiva, la morale, che è molto presente nel Buddhismo, è intesa come il passo necessario, e precedente, per mettere una persona nella situazione di intraprendere la meditazione. A questo livello, il digiuno o qualsiasi altra forma di penitenza, può essere utile, non come teorizzazione dottrinale, ma come scelta personale, per giungere ad un controllo delle passioni, almeno nelle loro manifestazioni esterne. É opportuna quest'ultima sottolineatura perché la purificazione “completa” avviene solo mediante la meditazione.

La dottrina della mancanza di un sé è l'aspetto più interessante e complicato del Buddhismo: la prima divisione nel Buddhismo avviene proprio sul modo di interpretare questa dottrina. Ma, data la sua importanza, vale la pena di tentarne una interpretazione.

 

Quattro o cinque anni fa è morto un monaco thailandese, Buddhadāsa, che era considerato l'autore più importante del Buddhismo Theravada degli ultimi cinquant'anni perché ne ha tentato una riforma che cercava di rendere comprensibili le dottrine tradizionali. Circa l'argomento in questione,  Buddhadāsa dice che avere un sé significa essere egoisti. Ed intende la parola egoismo nel suo senso letterale: mettere se stesso al centro e guardare tutte le realtà partendo da se stessi e in funzione di se stessi. Ne nasce naturalmente il dominio su tutto.

Rinunciare ad avere un sé significa invece rinunciare al dominio e porsi nei confronti delle varie realtà rispettandole nel loro significato e usandole secondo il loro significato. É un atteggiamento che personalmente definisco come atteggiamento di contemplazione, intendendo con questa parola tutto quello che significa nella tradizione cristiana.

Tenendo presente questi aspetti, si può dire che quando  Siddhārtha si dedicava alla penitenza aveva un sé, era cioè convinto di poter dominare se stesso e di poter dominare anche il Nirvana e conquistarlo. Il cambiamento rivela che si rende conto di questo sbaglio profondo: la via di uscita è di abbandonare questo sé, questo modo di vedere la realtà e di entrare in un atteggiamento di rispetto e di comunione con il reale. 

 

É da questa prospettiva che va interpretata l'azione quotidiana del monaco che esce a raccogliere le offerte dei fedeli. Ha un doppio significato. Verso i fedeli il monaco offre l'opportunità di compiere dei meriti: in un senso più vero non si tratta di accumulare delle buone opere, ma di portare il fedele alla consapevolezza che è necessario staccarsi dal possesso e quindi dal dominio sulle cose. In altre parole diventare consapevoli che niente ha un sé. Nei confronti di se stesso il monaco compie un'operazione simile, dato che è costretto dalla regola monastica ad accettare qualsiasi tipo cibo, buone o cattivo che sia, che gli viene offerto: la questua del cibo diventa un'ascesi il cui scopo è quello di creare un distacco interiore.

 

 

Osservazioni conclusive

 

Per chiarire meglio il discorso fatto è opportuno riprendere, anche se in modo molto succinto, alcuni aspetti già accennati.

 

Si è detto che il Buddhismo vuole essere la risposta alla sofferenza che l'uomo incontra nella vita. Intende quindi chiarire che cosa è questo problema del dolore affermando -Prima Nobile Verità- che tutto è sofferenza. 

I motivo è ritrovato nelle caratteristiche della realtà (dolore, impermanenza, mancanza di sé). Più propriamente tutto è dolore perché ogni cosa che ha una origine, si sviluppa e poi muore. Questo vale anche per quegli aspetti della vita che recano gioia, come potrebbe essere l'affetto in una famiglia. Da notare subito che non viene negato che fintanto che questo affetto dura esso non porti gioia e non si afferma che è negativo gioire di questo affetto. Quello che si vuole sottolineare è che per quanto valido possa essere, esso non è la risposta al senso della vita perché è destinato a finire, per esempio con la morte di uno dei familiari. In modo implicito si afferma quindi che il senso della vita è in qualcosa di permanente, che dura oltre la morte.

 

L'origine della sofferenza -è la Seconda Nobile Verità- è scoperta nel desiderio: questo è il termine normalmente usato nelle traduzioni italiane. Il senso del termine originario è reso meglio dal termine concupiscenza o attaccamento alle cose impermanenti.  Un altro termine che viene usato è 'sete'. Con esso si vuole dire che le varie realtà non permangono e di conseguenza c'è continuamente la necessità di cercare qualcosa di nuovo per riempire il vuoto interiore. La persona, quindi, fintanto che ricerca la propria pienezza in queste realtà, rimane insoddisfatta, ha sempre sete e di conseguenza è nel dolore.

 

La risposta vera -ed è la Terza Nobile Verità- è in quell'unica Realtà che è permanente: il Nirvana. Sperimentando questa Realtà l'uomo vince il dolore. Questo non significa che non ci sarà più la malattia, la vecchiaia e la morte, situazioni che il Buddha stesso ha sperimentato. Significa piuttosto che la malattia, la vecchiaia e la morte non sono più sentiti come  problemi che mettono in crisi la persona. Chi ha sperimentato il Nirvana è entrato in una dimensione diversa da quella vissuta in precedenza (l'espressione del Buddhismo è: è passato sull'altra sponda) e di conseguenza guarda la realtà umana in un modo diverso.

Malattia, vecchiaia, morte sono viste come naturali aspetti della vita umana. Dato che non c'è più l'attaccamento alla vita (nel senso indicato sopra e non nel senso di disprezzo) questi aspetti sono accettati come parte della vita stessa e non condizionano più emotivamente la persona. É l'emotività legata a quelle situazioni ciò che effettivamente crea sofferenza. Quando questa emotività è superata la persona rimane tranquilla ed anche gioiosa nelle situazioni di malattia, vecchiaia e morte. É in questo senso, e solo in questo senso, che si dice che chi è entrato nel Nirvana non ha più emozioni.

 

Padre Renato Tagliabue, PIME