INTRODUZIONE
Nel contesto italiano va sempre più affermandosi la figura del counselor, professionista del benessere della persona. La sua specificità è quella di accompagnare il cliente nel disagio puntuale che vive «aiutandolo ad aiutarsi», cioè a scoprire in sé potenzialità e risorse da mettere in gioco per uscire dal disagio in cui si trova o per migliorare la sua qualità di vita[1]. Ha a sua disposizione come strumenti principali e specifici[2] l’ascolto empatico[3], il colloquio[4], la riformulazione[5] e l’approfondimento dei contenuti portati dal cliente nel colloquio stesso tramite uno specifico modo di porre domande[6].
Il suo campo di lavoro peculiare è il mondo delle emozioni, del quale il cliente è chiamato a divenire consapevole. A differenza però del percorso psicanalitico o analitico che portano la persona nel passato, alla ricerca della radice remota da cui il malessere scaturisce e che eventi presenti vanno ad agganciare, nel counseling si lavora nel presente: si tratta cioè di prendere coscienza dell’emozione che si prova nel qui e ora e di imparare a gestirla, indipendentemente dagli agganci preconsci o inconsci che essa ha[7].
Alcune scuole di counseling parlano di «BreathWork»; anche il Training autogeno[8] pone la sua attenzione sul respiro.
In quest’ultima disciplina si sconsiglia qualsiasi tipo di controllo su di esso. Nel manuale di Schulz si legge:
Chi abbia una certa esperienza di fisioterapia del respiro può confermarci come alcuni soggetti reagiscano talvolta agli esercizi con intense reazioni generalizzate; esse possono avere le più svariate caratteristiche, da uno stato di eccitamento psicomotorio ad uno stato di inibizione che può raggiungere la sincope. Tali intense reazioni sono del tutto in contrasto con i principi fondamentali del nostro training autogeno. Invitiamo pertanto chi svolge gli esercizi a lasciare a se stesso il ritmo respiratorio, evitando ogni influenza intenzionale su di esso; se per caso subentrassero spontaneamente alterazioni nel ritmo respiratorio consigliamo al soggetto di non occuparsene nel modo più assoluto[9].
Nel training autogeno vengono utilizzate delle formule la cui ripetizione ritmica può essere messa in sincrono con il respiro e il battito cardiaco; l’obiettivo è la distensione, ma la sensibilità alla componente ritmica della parola è legata alla struttura psicologica della persona, quindi a un fattore soggettivo[10].
Se dunque nel training autogeno si pone attenzione al respiro è soltanto in vista dell’ottenimento del fine del training autogeno stesso: raggiungere una deconnessione neuropsichica come nell’ipnosi, ma senza alcuna eteroinduzione, e percepire una piacevole sensazione di calma, di benessere e di distensione. Non vi è dunque alcuna prospettiva spirituale in questa tecnica.
Per quanto riguarda il counseling, nella scuola di BreathWork il respiro è lo strumento per esplorare se stessi, una via corporea e non mentale di evoluzione di sé.
Il respiro è posto in relazione con il mondo delle emozioni, con la comunicazione, con le espressioni artistiche, ma al fine di migliorare il proprio sé. Scrive Milena Screm:
Per quanto riguarda il BreathWork, questo ambito ha a che vedere con il bisogno, comune a tante persone, di avere strumenti e conoscenze che consentano di intervenire sulla qualità della propria vita, a vari livelli. In particolare, partendo dal presupposto che l’essere umano crea, dà vita a ciò che ha dentro, l’approccio del BreathWork, quindi l’ambito entro il quale esso si sviluppa e si muove, è la realizzazione dell’autoconoscenza come strada da percorrere per raggiungere il benessere interiore prima e la serenità nella propria esistenza poi (alcune volte le due cose si creano anche di pari passo)[11].
Nel Breathwork si ha un approccio alla persona considerata nella sua interezza di corpo, anima e spirito; il respiro veicola lo scambio tra le parti, le equilibra e le armonizza. La dimensione spirituale non è dunque esclusa:
Il mondo degli archétipi, i simboli più evocativi e densi di significato che gli esseri umani condividono, appartiene a un patrimonio antichissimo eppure ancor oggi attuale perché non soggetto a regole temporali. In questo mondo l’elemento aria è collegato, nell’immaginario umano, al cielo e questo, si sa, è il regno del Padre. Non a caso, quindi, l’etimologia della parola inspirare è portare lo spirito dentro di sé, mentre spirare significa restituire l’anima a Dio, ricongiungersi alla sua essenza. Tutto ciò che ha a che vedere con il respiro è quindi permeato anche di valenze che possono evocare aspetti sacri, il rapporto con il divino e con la spiritualità. Questo potenziale emerge dai significati delle parole, come abbiamo visto nelle righe precedenti. E’ anche visibile dall’osservazione delle tradizioni mistiche esistenti, specialmente quelle provenienti dall’Oriente, dove per tradizione la vita materiale e quella spirituale sono unite e inscindibili. Proprio quest’ultima è la via che anche l’Occidente ha iniziato a recuperare dopo qualche millennio di separazione: spiritualità non significa più necessariamente trascendere gli aspetti fisici dell’esistenza[12].
Il respiro dunque è oggetto di attenzione sia quando la dimensione spirituale non è presa in considerazione, sia quando essa è ritenuta parte integrante della persona. Orizzonte spirituale però che non coincide con una scelta di fede o con una specifica appartenenza religiosa. Si può dunque usare tecniche respiratorie dentro un orizzonte prettamente orizzontale, o quando counselor e cliente appartengono a mondi spirituali differenti, perché il respiro è tecnica finalizzata al proprio sé, al benessere, alla autoconsapevolezza, alla propria crescita e non alla ricerca di Dio.
L’utilizzo del respiro nei termini di una tecnica finalizzata alla consapevolezza del vissuto emozionale della persona e dunque al suo benessere psicofisico è certamente un valore, ma il fermarsi a esso è una mortificazione dell’umano, perché lo blocca in valori naturali autocentrati. Le tecniche legate al respiro invece hanno la loro origine in contesti religiosi ove la conoscenza di sé è orientata alla spiritualità, dunque a valori trascendenti eterocentrati.
L’esicasmo è l’ultima tra le spiritualità a utilizzare la tecnica del respiro; si è in ambito cristiano. Esso vede le sue origini in Arsenio e la sua immediata diffusione tra i monaci del deserto. Divulgata nell’Oriente cristiano anche grazie a Evagrio Pontico e a Giovanni Climaco, si radica in maniera peculiare sul monte Athos, ove i monaci vivono uno stile di vita particolarmente favorevole all’hesychia. La stampa della Filocalia, raccolta di scritti spirituali dei Padri esicasti, fa sì che questa dottrina e la relativa pratica ascetica escano dai confini della Montagna Santa e si diffondano per tutta l’ortodossia, non ultimo grazie anche al testo “Racconti di un pellegrino russo”. Il respiro ecumenico che caratterizza la Chiesa cattolica post-conciliare ha permesso che l’esicasmo divenisse ricchezza spirituale anche per la Chiesa latina, nella quale la pratica si è diffusa con il nome di “preghiera del cuore”.
[1] Non gli sono propri dunque i campi della patologia, che restano di competenza della psicoterapia e della psichiatria.
[2] Questi strumenti sono condivisi da tutte le scuole di counseling: psicodinamico, analitico transazionale, gestalt, a mediazione corporea, filosofica, relazionale, ecc.
[3] Due sono gli studiosi a cui soprattutto ci si riferisce come capostipiti: Edith Stein e Carl Rogers. Pur utilizzando entrambi il termine “empatia”, il loro impianto di pensiero, il contenuto del termine e le dinamiche derivate sono piuttosto differenti.
[4] V. Calvo, Il colloquio di counseling, Il Mulino, Bologna 2007, 91-113.
[5] Ibid., 115-141.
[6] Ibid., 143-177.
[7] In realtà la persona è unitaria, la sua storia è un continuum, quindi la divisione tra passato e presente non può mai essere netta. Ma mentre nel percorso di psicoterapia l’obiettivo è divenire consapevoli della radice del problema che condiziona il presente, nel counseling si resta nel presente per scegliere che agito dare oggi all’emozione che si prova. Certamente se riaffiorano ricordi vengono rielaborati, ma il focus resta lasciare il passato al passato e decidere come vivere il presente. Questo è possibile se non si è in una situazione di patologia, come appunto quello in cui si muove il counselor.
[8] J.H. Schultz, Il training autogeno, Feltrinelli, Milano 2010.
[9] Ibid., 115.
[10] Ibid., 121.
[11] M. Screm, BreathWork, Armenia, Milano 2003.
[12] Ibid., 45-46.