Il metodo fisico

a cura del Cardinal Tomáš Špidlík

 

Il “metodo fisico”, come è stato accennato da Niceforo e come è descritto da altri, si è diffuso più di quello del Pellegrino. Esso comprende l’uso di altri elementi, chiamati da Ignazio Brjancaninov “supporti esterni”. La preghiera deve essere recitata in una cella oscura ed evitare le immagini, sedendo su una sedia bassa, respirando dolcemente per “calmare” la circolazione del sangue, fissando l’attenzione della mente “sulla parte superiore del cuore” (e non sull’ombelico, come dice Niceforo). Perché così tanti e minuziosi consigli? Si cerca di giustificarli uno per uno. La cella scura, isolata, è il luogo adatto per evitare le impressioni e avere, quindi, la mente vuota, “nuda”, come voleva Evagrio. La regolarità del respiro coordinata con la preghiera (cf. il “terzo modo di pregare” di sant’Ignazio di Loyola) è un esercizio naturale per chi non desidera altro che gustare la presenza di Dio nel ritmo della propria vita. I praticanti dello yoga affermano che il rallentamento del respiro rallenta il ritmo biologico della vita e l’invecchiamento. Il cristiano, scrive P. Evdokimov, può, in questo esercizio, vivere la propria esperienza: il “tempo escatologico” deve dominare sopra il tempo “cronologico” e “biologico”. Il corso della vita non deve più essere valutato secondo l’orologio, ma secondo la vicinanza di Cristo. La respirazione comporta tre fasi: inspirare, trattenere, espirare. Quando l’uomo aspira, vive la sua dipendenza dalla vita del mondo. Unire questa fase con la preghiera di Gesù significa sentire la dipendenza da Lui che è la vita del mondo in senso spirituale. Espirare è un sollievo di chi si sente in pieno possesso della medesima vita per donare. Nello yoga si attribuisce ugualmente una notevole importanza alla localizzazione del pensiero, rapportandolo a un organo che gli dovrebbe corrispondere secondo la struttura psicofisica dell’uomo. Il pensiero, situato al centro del petto, dicono, partecipa alla respirazione, acquista, quindi, un ritmo più stabile. I monaci russi ritenevano che la maggiore stabilità si ottenesse quando la localizzazione fosse fissata proprio sul cuore, “sulla parte superiore del cuore”. La pratica di questi consigli, dopo un certo periodo, si fa sentire, produce certi “fenomeni”, in particolare un senso straordinario di calore interiore e “visioni” di una luce che dal cuore illumina la persona, così che essa si vede come fosse “trasparente”. Nei “Dialoghi sulla preghiera del cuore, un monaco descrive questi fenomeni. Talvolta il calore viene sentito così fortemente che alcuni monaci usavano, per calmarlo, un lenzuolo bagnato. La pulsazione si rende più forte e può essere accompagnata dalle “luci”. Che cosa pensano di questa pratica gli autori spirituali noti in Oriente? In primo luogo, essi ammoniscono che si tratta di “fenomeni naturali” e che sarebbe una grave illusione considerarli come prodotti dalla grazia e identificare queste esperienze con la perfezione della preghiera stessa. Ma si pone un’altra domanda. Dato che il loro effetto sembra essere tranquillizzante per tutto l’organismo, non è forse utile approfittare di questi esercizi per creare una disposizione favorevole alla concentrazione e alla preghiera? Secondo le parole del vescovo e medico russo A. Bloom, “l’aspetto corporale della pratica ascetica dell’attenzione, sviluppato in modo ammirevole dai maestri ortodossi della tradizione esicasta, è troppo poco conosciuto in Occidente”. Queste parole, scritte nel 1949, forse non corrispondono più alla realtà, poiché oggi, in Occidente, sono molti coloro che si interessano alla tecnica della contemplazione. Dal punto di vista teologico la valutazione non è difficile. La preghiera cristiana, che cerca di mettere l’uomo intero in relazione con Dio, non deve rinunciare a priori ad alcun elemento che l’esperienza offre come aiuto per questo scopo. Per il resto, i teologi lasciano agli studiosi di psicologia e di medicina il compito di giudicare quanto spetta loro in questo campo. Non si devono comunque trascurare le serie riserve che i monaci cristiani formulavano riguardo a questo argomento. Anzitutto, essi erano tutti d’accordo sul fatto che non si debba in alcun modo praticare il “metodo fisico” della preghiera senza il controllo costante di un esperto padre spirituale. Venivano infatti considerati i gravissimi pericoli dell’illusione: essi hanno luogo quando lo “stato psichico” provocato dagli esercizi esterni si identifica con lo “stato di preghiera”. Si tratta qui di un ritorno all’antica eresia dei messaliani, falsi carismatici noti nell’ambiente siriano del IV secolo e poi diffusi in tutto il mondo cristiano. Inoltre, una speciale riserva riguarda gli occidentali che accedono a questi metodi con un atteggiamento tipicamente proprio. E’ stato giustamente osservato che l’atteggiamento di fondo nei confronti della realtà è sostanzialmente diverso tra gli orientali e gli occidentali. L’occidentale, qualsiasi evento avvenga, concentra la sua attenzione a stabilire la relazione tra causa ed effetto: ciò che è accaduto, da cosa è causato e quale effetto produce? L’atteggiamento degli orientali è diverso. Ci si interessa della “causa esemplare”: ciò che osserviamo, che cosa significa? di quale realtà nascosta può essere simbolo? Alla luce di questa considerazione, non risulta più sorprendente il modo di impostare la questione di molti recenti scritti di autori occidentali sul “metodo fisico”. In essi i lettori vengono istruiti nel modo seguente: quale effetto psichico produce la respirazione controllata, come l’umile posizione del corpo aiuta a suscitare i sentimenti umili nell’anima, ecc. Di conseguenza, il “metodo fisico” diviene, agli occhi dell’uomo occidentale, una specie di cultura ginnica. Esso, invece, in Oriente, venne considerato come un aiuto alla contemplazione. Tale era anche l’atteggiamento dei Padri che difendevano il culto delle sacre immagini e la contemplazione della natura. Tale deve essere, nella preghiera, la funzione del corpo di modo che l’orante, come scrive Origene, “porti nell’immagine dei sentimenti dell’anima”. Si deve, insomma, essere capaci di comprendere anche i diversi stati e sentimenti corporali come “immagini” dello stato spirituale che è nell’anima. È facile? Anche questo atteggiamento cela in sé un pericolo. Nella disputa sul culto delle icone, il punto centrale delle discussioni era il problema su come passare dall’immagine alla persona raffigurata, e infine a Dio Padre a cui, in fondo, si rivolge ogni preghiera. Soffermarsi su questo passaggio spirituale ridurrebbe l’immagine sacra a un idolo. E se, come nel caso nostro, si tratta dell’immagine del corpo, ciò è ancora più pericoloso, essendo l’idolatria carnale una delle più gravi. Già nella preghiera vocale incontriamo un analogo pericolo: può avvenire che a chi prega possa piacere così tanto il testo stesso dell’orazione, che egli dimentica la persona alla quale è diretta la preghiera e gode solo del proprio modo di recitarla o di cantarla. Durante le cerimonie liturgiche, una simile compiacenza può concentrarsi sui movimenti del corpo. Praticando il “metodo fisico”, che comporta un piacevole stato con sensazioni corporali più fini, parecchi, “ritornando a se stessi”, come dicono gli esicasti, dimenticano di trovarsi davanti al Padre che è nei cieli. La loro perfetta “concentrazione” non aiuta, ma tronca il dialogo che costituisce l’essenza della preghiera.