Lo GNOSTICISMO CRISTIANO e la risposta di alcuni Padri della Chiesa

Il perché della presenza del male nel mondo e la domanda sulla sua origine è un problema che da sempre ha assillato l’uomo.

La filosofia non si è sottratta dal tentare di rispondere a tale questione. Nel “Timeo” di Platone, ad esempio, viene supposta una gerarchia all’interno della divinità e la creazione del mondo viene attribuita a un dio artigiano (demiurgo) e ai suoi collaboratori (gli dei tradizionali); egli avrebbe agito creando  con un intento di bontà, cioè quello di estendere la beatitudine perfetta del mondo delle idee. La creazione non è risultata perfetta come il modello, ma la responsabilità non è da attribuirsi a questo dio artigiano. Del demiurgo, infatti, è la creazione di tutto ciò che è ordine, bellezza, ragione; agendo però nello spazio, principio che è la sede di tutto ciò che viene generato, si sarebbe incontrato con la necessità, definita “madre del mondo”: Quest’ultima entità, dal nome e dalla natura femminili, è il ricettacolo informe di tutte le cose, la radice preesistente ed eterna degli elementi visibili, la scaturigine incorporea della materia corporea. La scuola platonica perciò spiega il male come conseguenza di un principio esterno a Dio, coinvolto nella creazione del cosmo da un dio che non è il Sommo Bene; quest’ultimo non ha creato direttamente il mondo e non ha dunque responsabilità per il male in esso presente.

L’angoscia del male dell’esistenza in questo mondo attanaglia i pensatori anche del I e II secolo, ivi compresi quelli che vengono a contatto con l’annuncio cristiano. Si assiste così al nascere e all svilupparsi di una serie di correnti eretiche: è lo “gnosticismo cristiano”.

Lo gnostico, nella misura in cui si accorge della negatività presente nel cosmo, comprende anche di essere diverso: diverso dal mondo e diverso dagli altri, che vivono come bestie, che non prendono coscienza della tragicità del tutto. Questa sua consapevolezza lo fa sentire straniero; egli sperimenta l’angoscia di chi vive nell’ignoranza, senza sapere quale sia la sua natura, le sue origini, il suo destino e si sente abbandonato alla più assoluta solitudine, in un mondo di malvagità. Il dio vero e buono però, nella sua misericordia, invia dentro le profondità di questa tenebra, umana e cosmica, un messaggero divino, un rivelatore che porta alle anime in grado di essere illuminate la conoscenza salvifica. Attraverso questa conoscenza (da qui la denominazione di “gnostici”) lo gnostico comprende finalmente le ragioni del suo malessere esistenziale: il mondo infatti non solo è creazione imperfetta o malvagia di un dio inferiore, ma egli stesso, lo gnostico,  si trova a disagio perché dentro il suo corpo giace prigioniera una particella spirituale, una scintilla divina, che è finita prigioniera nel mondo materiale. La presa di coscienza dello gnostico è una sorta di risveglio dello spirito assopito, un ricordo “platonico” del mondo già posseduto e ora perduto, la cui verità e realtà sono dimostrate dall’esistenza stessa della conoscenza che lo gnostico ne ha. Questa, però, sarebbe stata impossibile senza la discesa di un’entità spirituale che ridestasse lo spirito sprofondato e inghiottito nella corporeità mondana. Questa entità divina consente inoltre di superare l’angoscia e raggiungere quella pace interiore di cui il riposo sovraceleste è la desiderata prosecuzione, dopo la morte del corpo, inutile e scomodo rivestimento. Il rivelatore si presenta, perciò, anche come salvatore, perché grazie a lui lo gnostico comprende la verità e quindi capisce di essere salvo; il suo vero io è infatti quel frammento divino ed eterno che, pur trovandosi nel mondo della materia, tuttavia da esso non proviene né gli appartiene. Avendo coscienza di avere dentro di sé un frammento del Dio vero, partecipa della sua divinità. Per gli gnostici cristiani il rivelatore celeste è il Cristo di cui parlano, in maniera velata e misteriosa, i Vangeli, mentre il demiurgo, incapace e malvagio, sarebbe il dio battagliero e vendicativo dall’AT.

Nella coscienza di essere individui diversi, unici possessori della verità, molti maestri gnostici costituiscono, sul modello delle antiche scuole pagane, conventicole di eletti, in cui approfondire tali loro “intuizioni religiose”. Generalmente il disprezzo per il mondo e per il suo creatore li porta su posizioni di radicale ascetismo, in quanto l’astensione dai cibi e dal sesso viene considerata come l’unica via percorribile per separarsi dai legami della fisicità. Non mancano però maestri gnostici che interpretano la loro superiorità sul mondo come un diritto alla superiorità e all’autonomia rispetto a ogni legge, biblica o pagana che sia, essendo questa il prodotto di divinità inferiori e malvagie.

 

Personaggio di grande rilievo nel II secolo, in ambito gnostico, è certamente Marcione. Nativo di Sinope (costa turca del Mar Morto); figlio di un vescovo cristiano, giunge a Roma negli stessi anni di Valentino. Entra nella chiesa locale con ampi donativi, avendo fatto fortuna come armatore marittimo. Ambisce a diventare vescovo, ma viene espulso dalla comunità nel 144, dopo un sinodo nel quale aveva cercato di far accettare le proprie idee (secondo S. Ireneo egli avrebbe sviluppato le idee di un certo Cerdone, maestro attivo a Roma e proveniente dalla Siria, il quale predicava la distinzione tra un dio buono, padre di Gesù Cristo, e un dio giusto, JHWH). Marcione organizza così una struttura alternativa alla grande Chiesa, istituisce un sacerdozio aperto anche alle donne, stabilisce episcopi. Il suo appello all’ascetismo è radicale, unito a un profondo antigiudaismo. Porta all’estremo alcuni concetti paolini (indegnità umana, amore gratuito di Dio e di Gesù Cristo che tutti riscatta con il proprio sangue, salvezza solo mediante la fede individuale). Raccoglie numerosi seguaci, sia in Italia sia in Oriente (in Armenia le sue chiese restano vivaci fino al V secolo!). E’ scrittore ed esegeta, definisce rigidamente un canone del NT, in cui accetta solo alcune epistole di Paolo e il Vg. di Luca, eliminando quei testi che non si adattano al suo anitigiudaismo e che , secondo lui, sono interpolazione dei discepoli giudaizzanti. Muore nel 160, lasciando la sua chiesa nelle mani di Apelle, suo discepolo, il quale svilupperà in senso gnostico le idee del maestro (soprattutto affermerà che il dio dell’AT non è un dio giusto senza rapporto con il dio buono, ma è un angelo di quest’ultimo, il quale diviene il demiurgo malvagio). 

Tra gnosticismo e marcionismo,  vi sono sia divergenze sia affinità:

  1. in entrambi vi è un accentuato dualismo, che implica una concezione negativa di tutta la realtà materiale; il corpo dell’uomo non è considerato suscettibile di salvezza e destinato all’annichilamento. Lo stesso redentore disceso dal cielo riveste dell’uomo solo la psiche e l’anima; il suo corpo è solo apparente o, comunque, non materiale. Mentre Marcione, però, non approfondisce il tema del rapporto tra il redentore celeste e il Dio sommo di cui è figlio, gli gnostici portano molto avanti la riflessione.
  2. Marcione ha una evidente impronta docetista, mentre in alcune sette gnostiche manca del tutto la figura del redentore che discende dal cielo; quest’ultimo è sostituito da un invito divino rivolto, in vario modo, all’uomo Gesù, il quale, vero uomo, nasce verginalmente da Maria, quando non addirittura da Giuseppe (cristologia bassa di tipo ebionita). Per Marcione il corpo di Cristo è immaginario, ma non le sue sofferenze: non si trova però alcuna traccia del pluralismo gnostico. In questo senso rasenta il pensiero dei modalisti, secondo i quali Cristo è, in realtà, il Dio buono rivestito dell’apparenza esteriore di un uomo.
  3. Accetta come letteralmente vero l’AT, per cui arriva alla conclusione che ci sono due dei: un demiurgo inferiore responsabile della creazione dell’universo (il Dio del Giudaismo) e il Dio supremo fatto conoscere per la prima volta da Gesù Cristo. Qui c’è sicuramente una affinità con lo gnosticismo, ma, a differenza di quest’ultimo, si rifiuta di identificare il demiurgo con il principio del male.
  4. Fonda, a differenza di tutte le sette gnostiche, una sua propria Chiesa gerarchizzata; la formazione, perciò, non è più riservata ad alcuni adepti, non vi è più il carattere tipico degli gnostici, che è quello della segretezza, ma l’annuncio è aperto ed esplicito.

 

Uno degli aspetti fondamentali della dottrina gnostica è la divisione dell’umanità in tre diverse categorie; a questa antropologia gnostica i Padri rispondono con ampie riflessioni sul tema della libertà dell’uomo. 

La divisione dell’umanità in tre categorie operata dagli gnostici esprime la loro concezione antropologica in relazione al problema della salvezza. Per questi pensatori infatti l’itinerario di redenzione si impernia sull’uomo come spirito; la loro visione è dominata da un senso di assoluta estraneità e avversione al mondo sensibile della materia. La perfezione è prima, in una realtà superiore, spirituale, di pienezza, da cui, attraverso una degradazione e una caduta, variamente descritta e interpretata, parte della sostanza divina è stata precipitata nel cosmo e nel mondo della materia, per opera di un dio inferiore, generalmente identificato o con il demiurgo o con il Dio dell’Antico Testamento. La salvezza consiste perciò per gli gnostici in una liberazione dal mondo e dal corpo. Essa però può riguardare solo gli uomini “spirituali” nei quali è racchiusa, come già detto sopra, una particella della sostanza divina, sebbene ottenebrata dalla materia. La redenzione è quindi un processo di autocoscienza, grazie all’opera di un salvatore e di una rivelazione esoterica, che aprono allo “spirituale” la conoscenza: gli vengono cioè rivelate le sue origini,  la sua vera natura e viene avviato al distacco del mondo materiale per reintegrarsi nella pienezza iniziale. Tutto questo avviene per una sorta di connaturalità: il divino (presente nello spirituale) altro non fa che tornare al divino (presente nel Dio Sommo). In questo processo, talvolta viene dato un posto a Cristo come salvatore, ma la sua incarnazione-passione-morte-risurrezione non hanno rilievo salvifico. Al di sotto di questi esseri spirituali ci sono gli “psichici”, i quali sono solo parzialmente salvati perché la loro anima giace addormentata, ma è possibile destarla dal sonno tramite l’istruzione. All’ultimo livello, infine, ci sono gli “ilici”, per i quali non c’è alcuna possibilità di salvezza, essendo essi completamente soggiogati e schiavizzati dalla materia: essi non sono altro  che esseri carnali. Il loro destino è la rovina eterna.

 

Per Ireneo di Lione l’uomo è un essere creato da Dio, creato perché viva, è in divenire e, soprattutto è un essere libero e responsabile. La libertà dell’uomo di fronte al proprio destino è, per questo Padre, uno degli aspetti dell’essere immagine di Dio: Dio è libero e ha creato l’uomo libero, come Lui; di questa libertà Egli ha sommo rispetto. Ovviamente insita nella libertà c’è la possibilità di peccare, che consiste, fondamentalmente, nel non aderire al progetto di Dio. Di fatto proprio questa è stata l’opzione dell’uomo. La sua colpa, però, non ha vanificato il piano di Dio, ma ha reso impossibile all’uomo divenire figlio di Dio. Solo in Cristo è possibile la riapertura di questa possibilità. L’azione di Dio – e qui si tocca il tema della “pedagogia divina”- consiste proprio nella lenta rieducazione dell’uomo, ove sono coinvolte da un lato le “mani di Dio” (cioè il Figlio e lo Spirito) e dall’altro la libertà dell’uomo che sceglie responsabilmente di farsi rieducare da Dio. La meta è la perfezione dell’uomo, che consiste nel suo divenire, aderendo al piano di Dio.

Passando all’ambiente alessandrino, anche per Clemente l’uomo è un essere dotato di libero arbitrio. Nella sua condizione primigenia era simile a un bambino innocente, destinato ad avanzare per gradi e stadi progressivi verso la perfezione. Proprio perché dotata di libertà, la prima coppia umana ha scelto di iniziare a far uso della sessualità, abbandonandosi al piacere, prima che Dio ne desse il permesso (ben diversa la posizione di Clemente da quella degli gnostici: per questo Padre, infatti, il sesso non è peccato in sé; il male sta nell’aver violato l’ordine di Dio). Conseguenza è la perdita dell’immortalità del paradiso, l’indebolimento della volontà e della capacità razionale e il divenire preda di passioni peccaminose. Per Clemente Adamo ed Eva sono certamente personaggi storici, ma sono anche il simbolo dell’umanità; tutti i loro discendenti, a eccezione del Logos, sono peccatori. Egli però non accetta che ogni uomo sia coinvolto nel peccato della prima coppia (dunque il peccato originale nel suo senso più completo); ciò che l’uomo eredita è piuttosto la sensualità disordinata, che comporta il dominio dell’elemento irrazionale nella nostra natura. Come Adamo ed Eva tuttavia tutti gli uomini hanno in sé una scintilla del divino ed è esattamente questa che li rende uomini liberi, sempre e comunque capaci di scegliere se obbedire o se disobbedire alle leggi di Dio.

La posizione di Origene infine è molto forte e intransigente contro gli gnostici e, in generale, contro chi non riconosce all’uomo la possibilità di essere artefice del suo destino e protagonista responsabile delle sue scelte. Secondo questo Padre infatti è nella natura stessa dell’uomo che risiede la capacità di scegliere tra il bene e il male, che è l’essenza del libero arbitrio. Grazie alla ragione, dono di Dio, l’uomo è in grado di distinguere ciò che si cela dietro le apparenze e le immagini; è grazie alla volontà che l’uomo può indirizzare al bene o al male la sua determinazione e il suo assenso. Non vi è alcun determinismo nella vita dell’uomo: è infatti la libertà ciò che dà significato e valore all’agire. Per Origene la libertà è il compimento dell’atto creativo di Dio, che consegna l’uomo alla sua ultima responsabilità: se progredire, cioè, nella somiglianza con Dio, oppure se decadere per negligenza. Proprio per esaltare il ruolo del libero arbitrio in opposizione alle tesi gnostiche e marcionite,  egli presuppone la preesistenza delle anime, compresa quella di Cristo, alla creazione del mondo e dei corpi. Le definisce “intelligenze”, che godevano della contemplazione di Dio. Ad un certo punto sono state precipitate nella condizione di “anime” di angeli, di uomini o di demoni in conseguenza del “raffreddamento del loro fervore”. Questa è la colpa originaria. La situazione di anime, però, non è definitiva e irreversibile; al contrario, al termine del ciclo di questo mondo, le anime saranno restaurate nella loro primitiva condizione di beatitudine. Questo certamente per quanto riguarda gli angeli e quegli uomini che hanno liberamente accettato di compiere il cammino verso la somiglianza con Dio. In Origene è così radicato il valore della libertà di scelta da renderla costitutiva dell’essere dell’uomo anche dopo la morte, quando già  gode della contemplazione di Dio. Se infatti un’anima, ad un certo punto, provasse sazietà, pur essendo già al massimo grado di perfezione, allora, gradatamente, andrebbe incontro a decadenza; sempre, però, le è lasciata la possibilità di volgersi indietro e di tornare al massimo grado di perfezione.