LATTANZIO
Lattanzio è un laico cristiano, convertito in età adulta. Professore di retorica, non rinnega la sua ampia cultura profana, ma, al contrario, fa di essa uno strumento per gettare ponti tra la tradizione classica e il cristianesimo. Vive immerso nella società del suo tempo, esercitando la sua professione nella corte imperiale: egli è perciò testimone privilegiato della sua epoca. Vivendo a cavallo tra la fine del III secolo e l’inizio del IV, come Eusebio viene a essere coinvolto nella grande svolta che caratterizza la Chiesa di questo tempo: da un’era di aperta persecuzione o, comunque, di dichiarata ostilità (l’ultimo scenario di sangue è quello del 302, sotto Diocleziano), si passa alla tolleranza religiosa degli anni 312-313, fino alla conversione del potere al cristianesimo nella persona di Costantino. Lattanzio intuisce che per la Chiesa si apre un’era nuova, portatrice di nuove esigenze; il cristianesimo, infatti, ha ormai conquistato un posto preciso e pubblico nel mondo, posizione che anche il mondo pagano non può più ignorare. Esso è ormai un fatto. D’altro canto ai suoi occhi lo stesso cristianesimo si presenta non privo di lacune nel suo porsi a confronto con il mondo classico: Tertulliano ha eccessi verbali notevoli –oltre a una posizione giocata esclusivamente sulla difesa- mentre il linguaggio di Cipriano è comprensibile solo agli “iniziati”. Lattanzio si propone perciò di redigere opere apologetiche nelle quali, con uno stile elegante e piacevole, in modo “razionale e obiettivo”, tenta di convincere i pagani del fatto che la pienezza della verità è solo nella fede cristiana, la cui sapienza è di gran lunga superiore a quella profana. Egli però non esita anche ad affermare che la verità rivelata supera le capacità della sola ragione umana, mostrando così una sorta di dualismo nella conoscenza stessa, cosa che non passa inosservata all’occhio dei pagani colti, i quali lo criticano in modo impietoso, dando di lui una valutazione non del tutto positiva. Preoccupato di suscitare l’interesse del mondo pagano, tenta un approccio al cristianesimo a partire dalla cultura antica, mostrando come la fede cristiana sia il perfetto compimento delle religioni e delle sapienze antiche. L’umanista cede però il passo al polemista quando la fede cristiana viene accusata di irrazionalità: Lattanzio infatti reagisce immediatamente, tacciando di arbitrarietà e di assurdità le tradizioni pagane, accentuando le deficienze morali del paganesimo, puntando il dito contro i filosofi, la cui vita è spesso in contrasto con la dottrina da loro stessi propugnata. Proprio al riguardo, questo autore si mostra un vero e proprio moralista. Nella sua opera “Istruzioni divine”, nei libri 5 e 6, egli pone le basi filosofiche e teologiche della morale, partendo sia dalla sua cultura profana sia dall’esperienza cristiana. Su di esse poi si appoggia per sostenere che morale e religione sono realtà strettamente unite. Secondo l’autore, infatti, l’uomo è un essere religioso, fatto per incontrare Dio; proprio questa religione è l’unica base solida su cui fondare la morale, come, d’altro canto, non vi può essere vera religione se essa non sfocia in un agire retto. Prendendo le distanze dalla filosofia greca, Lattanzio non identifica la virtù con la scienza, ma afferma che morale e religione presuppongono il possesso della vera sapienza, che è quella rivelata, grazie alla quale è possibile la vera conoscenza, sia dell’uomo, come anche del mondo e di Dio stesso. Proprio circa la conoscenza dell’uomo, egli si pone in una posizione originale sia rispetto al mondo pagano, come rispetto agli autori cristiani precedenti. Il “mistero dell’uomo”, come spesso l’autore lo definisce, mostra con chiarezza la grandezza dell’essere umano, ma anche la sua debolezza, la sua libertà posta al punto di incontro tra il mondo materiale e quello spirituale, tra la ragione e gli istinti (al riguardo, Lattanzio prende una posizione del tutto originale: egli è infatti il primo autore che riabilita gli istinti, affermando che il desiderio e il piacere non sono intrinsecamente negativi, ma tali diventano quando sono male orientati). Nella vita concreta la morale e la religione sono chiamate a congiungersi nella “giustizia”, che coinvolge non solo i rapporti degli uomini tra loro, ma anche quelli del singolo con Dio (timor di Dio e vita santa).
In teologia, però, Lattanzio è un autodidatta, presenta gravi lacune, nonché un modo piuttosto dilettantistico nell’utilizzare le fonti; la sua speculazione sul Padre e sul Figlio è confusa, il Verbo è presentato come inferiore a Dio, Cristo è principalmente un modello e un maestro, lo Spirito Santo è assente, la vita ecclesiale e sacramentale è solo brevemente trattata e l’interpretazione dell’Apocalisse soffre di letteralismo.
Tutto questo, a mio parere, dimostra proprio il cambiamento di scenario che sta avvenendo nella Chiesa passando dal III al IV secolo. In un tempo in cui la lotta per l’esistenza della fede non è più cruenta, i pensatori cristiani possono permettersi di riflettere sulla loro fede e sui suoi contenuti in modo più sereno, preoccupandosi non più soltanto di definirsi giocando in difesa-attacco (apologia) e puntando ai soli pilastri fondamentali (la dogmatica), ma ampliando il campo di pensiero a molti altri aspetti dell’essere e del vivere cristiano (la morale, ad esempio), in un rapporto di confronto con il mondo pagano che, pur senza perdere in originalità e precisione, sia più attento alla sua sensibilità e alla sua modalità di svolgimento dell’argomentare. Sebbene anche Lattanzio non sia esente da limiti, non si può non riconoscergli il grande merito di aver offerto, in un latino elegantissimo, il primo compendio della dottrina cristiana, egli, uomo colto che si rivolge agli uomini di cultura della sua epoca (ne è testimonianza il larghissimo ventaglio della letteratura del tempo); ancor più, questo autore cerca di fare un passo avanti sulla linea della conciliazione tra cultura antica e cristianesimo, cosa che aveva già visto qualche tentativo in personalità come Giustino nel II secolo e Clemente nella prima metà del III secolo, ma dentro contrasti e difficoltà nettamente più evidenti.