Fondando un nuovo Ordine - l’ultimo, peraltro, riconosciuto dalla Chiesa - Madre Maria Maddalena è chiamata a dover scegliere quale Regola mettere a fondamento, accanto alle Costituzioni proprie. Ben conosce quella di S. Francesco, da lei vissuta per molti anni a Ischia di Castro; chi l’ha seguita, lasciando con lei e come lei l’abito francescano, caldeggia perché anche le Adoratrici siano poste sotto la paternità del santo assisiense. Altri invece, tra i quali lo stesso Pontefice Pio VII, premono perché si opti per quella benedettina, ritenuta particolarmente idonea per chi sceglie di dedicarsi alla lode di Dio e al culto eucaristico. Madre Maddalena invece sceglie quella agostiniana, perché la ritiene maggiormente adeguata a quella peculiarità che intuisce esserci nel carisma affidatole da Dio.
Al n° 2 della Regola S. Agostino indica la finalità del radunarsi a vivere insieme, dando vita a una comunità religiosa:

“Prima di qualsiasi altra cosa, vivete insieme in armonia tra voi, come un’anima sola e un cuore solo, camminando verso Dio. Non è forse per questo il motivo che avete deciso di vivere insieme?”.

La prima comunità di Gerusalemme è il modello che S. Agostino desidera imitare e matura in direzione di questo ideale. Per questo motivo egli dà un’interpretazione del concetto “un cuore solo e un’anima sola” in continuità con la tradizione monastica che lo precede: chi raggiunge la semplicità del cuore , attraverso il distacco dalle cose temporali, e si consacra interamente a Dio, percorre il cammino dell’unificazione del cuore e dell’anima. Si tratta dell’unità interiore della persona, considerata individualmente. Successivamente però “l’unità del cuore” riceve dal santo ipponense un’altra spiegazione, perché viene considerata in relazione alla vita comunitaria: si passa cioè a parlare di unità fra molte persone. L’amore scambievole diviene l’obiettivo dominante e primario.
Come scrive anche nel “Contro Fausto”:
“Attraverso il fuoco dell’amore essi sono un cuor solo e un’anima sola in cammino verso Dio”.

Ancora più intensamente il concetto viene espresso nel commento al salmo 132:

“Queste parole del salterio [Guardate com’è buono , com’è piacevole per i fratelli vivere insieme in unità, ndr], questa dolce armonia, questa melodia soave tanto a cantarsi quanto a considerarsi con la mente, hanno effettivamente generato i monasteri. Da questa armonia sono stati destati quei fratelli che maturarono il desiderio di vivere nell’unità. Questo verso fu per loro come una tromba: squillò per il mondo ed ecco riunirsi gente  prima sparpagliata. Il grido divino, il grido dello Spirito Santo, il grido della profezia… è stato udito nel mondo intero… i primi cristiani vennero dal giudaismo, e furono proprio loro a cominciare la vita dell’unità, vendendo tutti i propri averi e deponendo il prezzo ricavato ai piedi degli Apostoli. E’ quello che si legge negli Atti degli Apostoli: e ne distribuivano a ciascuno secondo il suo bisogno e nessuno diceva di alcunché che era sua proprietà, ma tutto era fra loro comune. Cos’è dunque nostro: nell’unità? Dice: avevano un cuor solo e un’anima sola in cammino verso Dio (Atti 2,45; 4,32). Furono dunque loro i primi ad ascoltare le parole: Ecco, com’è buono, com’è piacevole per i fratelli vivere insieme nell’unità!… Non potranno quindi abitare in vita comune se non coloro che hanno perfetta la carità di Cristo. Coloro infatti che non posseggono la perfezione della carità di Cristo, una volta uniti insieme, non mancheranno di odiarsi e di crearsi molestie, saranno turbolenti e propagheranno agli altri la propria irrequietezza, né ad altro baderanno che a captare dicerie sul conto di terzi. Saranno come un mulo indomito, attaccato al carretto. Non solo non tirerà, ma a furia di calci lo sconquasserà… Così molti fratelli. Ora questi non abitano nell’unità se non col corpo. Quali sono invece i fratelli che davvero abitano nell’unità? Coloro di cui sta scritto: E avevano un cuor solo e un’anima sola in cammino verso Dio, né vi era chi dicesse suo quello che possedeva, ma tutto era tra loro comune”.

Sempre commentando questo salmo Agostino dà una spiegazione molto personale della parola “monaco”. Essa deriva infatti dal greco e significa “monos”, cioè “uno”. Nel vocabolario giudeo-cristiano è spesso associata al concetto della semplicità del cuore, cioè a chi ha il cuore indiviso e aborrisce la dissipazione nella vita e nell’attività, è coerente e si dedica totalmente al servizio di Dio. Questa tensione verso l’unità interiore fa di una persona un monaco. Egli applica questo concetto all’ideale della vita religiosa comunitaria. L’unità è sempre fondamentale, ma essa non è più, in primo luogo, una questione che riguarda l’interno del cuore del singolo, ma la relazione con gli altri. Essi infatti devono essere amati in modo tale che non ci sia più alcun problema legato alla diversità, ma solo preoccupazione per l’unità. E’ questo un passaggio fondamentale: da una interpretazione personale a una relazionale. La comunità perciò altro non ha da essere che espressione dell’amore divino, a motivo dei forti legami d’amore tra i vari membri.
Come dice sempre commentando il salmo 132:

“Quelli che vivono in unità in modo tale da formare un’unica persona sono giustamente chiamato «monos», una singola persona. Essi formano veramente, come sta scritto, «un cuor solo e un’anima sola», cioè molti corpi ma non molte anime, molti corpi ma non molti cuori”.

Dispersione e divisione sono, per questo Padre della Chiesa, un rifiuto dell’amore; al contrario, l’amore scambievole porta alla perfetta unità, alla pace, alla comprensione reciproca, a Dio. Come dice commentando il salmo 147:

“Insieme uno, in un solo Cristo, verso un solo Padre”.

L’unanimità però non è sufficiente per fare di un gruppo una comunità religiosa; essa infatti è necessaria per la formazione di un gruppo, qualunque ne sia la caratteristica. Per questo Agostino aggiunge “in cammino verso Dio”, a dire che si è comunità religiosa quando di sceglie liberamente di stare insieme, uniti come un cuor solo e un’anima sola, camminando verso il Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo.
Essere pellegrini insieme significa che la comunità non è primariamente una istituzione o una struttura, ma una maglia di dinamiche relazioni. Qualunque tipo di vita comunitaria  richiede un certo livello di concordia e di armonia, la condivisione degli stessi ideali e obiettivi comuni. Essere un cuore solo e un’anima sola in cammino verso Dio non significa che l’unanimità deve regnare su tutti i fronti, ma che si spartisce una comune ispirazione in relazione ai principi fondamentali. La condivisione reciproca della vita di fede comporta che le relazioni interpersonali in cui si mettano in comune idee, aspettative, attività, speranze… ma anche qualcosa della propria vita interiore. Uno dei temi essenziali della teologia agostiniana è l’identificazione fra l’amore per Dio e l’amore per l’uomo. Quando infatti si parla di rendere onore a Dio si è facilmente portati a pensare al culto divino in forma di preghiera - personale o liturgica che sia -; il vescovo ipponense invece si rifà soprattutto alle relazioni d’amore tra le persone, tra i fratelli e le sorelle che vivono insieme. Per Agostino il primo modo di onorare Dio è vivere in una buona comunità; questo precede persino la preghiera. Commentando il salmo 132 infatti egli afferma:

“Quando i fratelli e le sorelle vivono insieme in concordia, il Signore è lodato. Nella discordia non lodate il Signore”.

La lode a Dio consiste dunque prima di tutto nelle buone relazioni fra i membri della comunità: è l’amore per gli altri il più grande inno da elevare al Signore.
Il tema viene poi ripreso al n° 8 della Regola ove si dice:

“Perciò, dovete tutti vivere insieme, «come un’anima sola e un cuore solo» (cfrAtti 4,32) e onorare Dio gli uni negli altri, perché «ciascuno di voi è divenuto suo tempio» (2 Cor 6,16).”.

Il tema dell’essere tempio di Dio viene trattato anche in relazione al salmo 131:

“Qual voto offriremo a Dio se non la volontà di essere suo tempio? Nulla di più accetto potremmo offrirgli se non ripetergli quanto è detto in Isaia: «Prendi possesso di noi…» (Is 26,13). Tutti i credenti nel Signore diventano un solo luogo dove Dio dimora.Il Signore abita nei cuori, e unico è il cuore di quanti, pur essendo molti, sono cementati dalla carità. Quante migliaia di persone credettero e posero ai piedi degli Apostoli il prezzo dei loro averi! Ma cosa dice la Scrittura nei loro riguardi?  «Erano certamente diventati tempio di Dio» (1 Cor 3,16) e non lo erano diventati solo come singoli, ma tutti insieme erano diventati tempio di Dio”.

Soltanto quando le persone diventano reciprocamente fratelli e sorelle sono nuovo tempio di Dio: questo è il luogo della Sua presenza, perché Dio abita nell’amore. Tale concetto è ribadito anche in uno dei discorsi del santo dottore:

“Questa chiesa edificio è la casa delle nostre preghiere, ma noi stessi siamo il vero tempio di Dio. Di più: noi formiamo anche insieme la casa del Signore, ma solo se siamo uniti reciprocamente nell’amore”.

L’abitazione di Dio riguarda sia l’ambito personale sia quello comunitario, come chiaramente lo stesso Agostino specifica:

“Siamo suo tempio sia collettivamente sia individualmente. Egli desidera abitare nell’unione di tutte e di ciascuna persona”.

L’essenza di tutto il culto divino è l’amore e l’amore è il compimento della legge donata da Gesù.  Per questa ragione il santo vescovo fa poggiare l’intera Regola sul rapporto dei membri  della comunità fra di loro, menzionando l’amore di Dio esplicitamente una sola volta, al capitolo 4. Frequentemente, nei suoi discorsi come nei suoi scritti, egli ribadisce infatti che l’amore per il prossimo deve precedere quello per Dio, forse non in teoria, ma certamente nella pratica. Il primo infatti è più concreto e tangibile: le relazioni umane ci mettono in grado di valutare meglio se l’amore per Dio è realtà o soltanto illusione.
Si può così facilmente concludere che il culto divino consiste principalmente nell’amore reciproco. La preghiera, l’Eucaristia, la vita sacramentale non sono in se stesse un sicuro criterio per giudicare l’amore verso Dio. Senza amore per le persone, esse restano sterili.
E’ per questo motivo che anche nel capitolo 5 della Regola, ove si tratta del progresso spirituale della comunità, la sollecitudine per gli altri è posta come criterio di verifica del progresso nell’amore verso Dio.
Non si è perciò in armonia con la spiritualità richiesta dalla Regola se si diffida delle relazioni umane, o se le si considera di poco conto, o se si ritiene che l’amore per gli altri può ostacolare l’amore verso Dio: i due infatti non sono in concorrenza tra loro, ma si implicano a vicenda in un movimento ampio e dinamico. Naturalmente questo sottintende che si tratti di amore genuino, che lo stesso Agostino specifica commentando la 1° Lettera di Giovanni:

“Se volete vivere la carità, fratelli e sorelle, in primo luogo rendetevi conto che l’amore non è una bagatella; non pensate che esso si conservi in forza di una certa mansuetudine; il pigrone, l’indifferente, il negligente non amano veramente. Non così esso si conserva. Non credere allora di amare il tuo servo per il fatto che non lo percuoti; oppure che ami tuo figlio per il fatto che non lo castighi; o che ami il tuo vicino se non parli con lui; questa non è carità, ma debolezza”.

L’amore ha per obiettivo il bene degli altri, siano essi dei singoli o una intera comunità di fratelli e sorelle, mai il tornaconto personale.
Si comprende ora molto bene a quale modello di riferimento Madre Maria Maddalena si ispiri per il nuovo Ordine, se si pensa soprattutto al come e al perché è nato il monachesimo.
Esso affonda le sue origini nel corso della seconda metà del III secolo in maniera autonoma e simultanea in Egitto, in Palestina e nella Siria orientale-Mesopotamia. E’ un fenomeno complesso, non riducibile a una sola causa. Testimonianze di vita celibe si trovano già nei Vangeli sinottici, negli Atti degli apostoli e nelle lettere di S. Paolo ai Corinzi e a Timoteo. Anche la letteratura cristiana primitiva testimonia l’esistenza di questa scelta di vita: la Didaché, Clemente Romano, Ignazio di Antiochia, Giustino, Atenagora di Atene, Cipriano, lo pseudo-Clemente, Clemente Alessandrino, Metodio di Olimpo. Coloro che fanno scelta di vita casta restano nell’ambiente familiare, lontano dai lussi e dalla vita mondana, conducono vita di preghiera e compiono opere di carità. Nel III secolo compare la prima forma di istituzionalizzazione: l’istituto delle vergini si fa gruppo all’interno della comunità cristiana e di esso si prende cura direttamente il Vescovo. Origene porta un grande contributo alla nascita del monachesimo, anche se la sua dottrina creerà non pochi problemi in epoca posteriore a un settore della vita monastica. E’ appunto però nel III secolo che il monachesimo si impone come fenomeno. Esso nasce in un periodo di forte crisi economica e culturale: l’Impero romano crolla sotto la pressione dei popoli barbari, la ricerca scientifica e filosofica è in stallo, le continue rivoluzioni militari seminano povertà. Gruppi gnostici, manicheismo, montanismo ed encratismo predicano, ciascuno con modalità e sfumature proprie, l’ascetismo e l’opposizione alla decadenza dei costumi. L’imperatore Decio, tra il 249 e il 251, mette in atto il primo tentativo sistematico di annientamento del cristianesimo in tutto l’Impero. Molti cristiani si trovano a fuggire dalle città e a inoltrarsi nel deserto, ma con la pace costantiniana i più fanno ritorno. Dopo il 313 però la Chiesa inizia a correre il grave rischio di godere sì della pace, ma anche di restare intrappolata nelle strutture mondane e negli intrighi politici. Non pochi cristiani avvertono il pericolo e scelgono di non perdere l’antico fervore: si inoltrano così nel deserto per condurvi una vita di preghiera, di mortificazione e di rinuncia. Questo l’inizio del movimento monastico, sorto come protesta silenziosa contro il rilassamento della vita cristiana. In realtà questa forma di vita era già conosciuta. Le spedizioni di Alessandro Magno in India nel 325 a.C. avevano infatti reso noto il monachesimo indiano e quello buddista. Anche le concezioni neo-pitagoriche erano conosciute. E’ però soprattutto il monachesimo giudaico – il movimento degli Esseni a Qumrân e i Terapeuti alessandrini – a influenzare il movimento monastico cristiano delle origini. Al di là delle circostanze storiche e delle analogie tra le diverse realizzazioni monastiche pre-cristiane, a far nascere questo movimento è quel bisogno tipico dell’uomo di ritrovare l’unità della sua persona e l’unità con Dio; questo è il comune denominatore di tutti i movimenti monastici. Per quanto riguarda quello cristiano le sue basi affondano indubbiamente nel Vangelo: la sequela di Gesù, l’imitazione della vita degli Apostoli, il modello di vita della primitiva comunità cristiana, la preghiera continua, il combattimento spirituale, l’attesa del ritorno di Gesù, l’osservanza dei comandamenti, ecc. Il movimento monastico ha avuto un profilo sia maschile sia femminile; il primo è quello più conosciuto perché ci sono pervenuti più testi, ma il secondo è quello sorto per primo.
Fondatore del monachesimo è considerato Antonio Abate, il cui ideale di perfezione poggia su due verità fondamentali: da un lato il peccato originale con tutte le sue conseguenze di ribellione e disordine nello spirito dell’uomo, dall’altro l’immenso amore di Dio, di cui l’Incarnazione è culmine. Diventare perfetti significa tornare allo stato di grazia originale; l’ascesi è mezzo privilegiato, se non indispensabile; essa consiste nella rinuncia a tutte le opere della carne, al fine di far tornare libera l’anima da tutte le materialità che il corpo vi posa sopra. L’ascesi esteriore è completata da quella interiore, intesa come lotta ai fantasmi della mente e alle passioni del cuore, per giungere all’unificazione della persona. Il deserto è per Antonio il luogo privilegiato della lotta, perché la solitudine presuppone la rinuncia a tutto ciò che è di ostacolo all’incontro con Dio e favorisce la custodia del cuore. Suo alimento è la Parola di Dio, unica arma capace di sconfiggere i demoni, insieme allo Spirito Santo, che sempre accompagna l’anima nel suo cammino ascetico. Sebbene vi sia una chiara impostazione “individualistica”, nel cammino anacoretico di Antonio non c’è isolamento solipsistico: la sua solitudine infatti si apre all’accoglienza di discepoli per i quali diventa maestro e padre spirituale. Antonio non lascia regole scritte; viene da subito chiamato “padre dei monaci” perché di loro è modello, più con la vita che con le parole; a tutt’oggi rappresenta un ideale punto di riferimento per la vita consacrata in quanto a radicalità nella scelta di seguire Gesù solo, al dì là poi della forma, anacoretica o cenobitica che sia.
Pacomio è considerato invece il padre della koinonia, essendo il primo legislatore della vita monastica cenobitica. La sua Regola è caratterizzata da un grande equilibrio e da una grande maturità. La novità introdotta da Pacomio consiste sostanzialmente nel passaggio, per i cercatori di Dio, dall’essere “monaci solitari” all’essere “fratelli”, la cui spiritualità non è più incentrata sulla triade solitudine-preghiera-ascetismo, ma su quella comunità-preghiera-lavoro, in cui le pratiche ascetiche permangono ma in forma più moderata, essendo l’attenzione puntata alla comunione fraterna.
Di quasi un secolo dopo, non in Egitto ma in Asia Minore, sull’altopiano dell’Anatolia, è l’inizio dell’opera del grande Padre cappadoce Basilio il Grande, vescovo di Cesarea. Sue sono le due Regole le quali, a differenza di quella di Pacomio, non mirano tanto a strutturare la vita esterna della comunità, ma sono piuttosto direttive di tipo teologico aventi come riferimento la Parola di Dio.
Tornando in Africa, nell’odierna Algeria, troviamo Agostino. Questo grande Padre della Chiesa supera la visione anacoretica di Antonio, come pure quella comunitaria-ascetica di Pacomio e anche quella fraterna di Basilio. All’inizio della sua Regola Agostino pone l’unità, frutto e perfezionamento della carità. Essa costituisce, come già ampiamente trattato sopra, l’identità stessa della comunità, il punto attorno al quale tutto il resto ruota e attorno al quale trova armonia. La carità porta all’unità e l’unità porta a Dio. Ciò che caratterizza le comunità agostiniane è che il cammino verso Dio è percorso insieme, è mediato dal fratello, il quale si fa strada sicura e breve, nonché cartina di tornasole che verifica l’autenticità dell’amore a Dio. Egli è per Agostino sacramento dell’incontro con Dio; violare l’unità è violare il tempio di Dio, perché l’unità e la concordia sono il luogo prediletto da Dio per la Sua presenza. L’inabitazione divina non è più intesa solo nell’anima del credente, ma nell’intera comunità, cosicché Dio nel singolo e Dio nella comunità diventano realtà inscindibili. L’unità della comunità ha il suo fondamento nell’unità della Trinità e Gesù è il mediatore; lo Spirito Santo è colui che, come crea l’unità nella Trinità, così la crea anche nella comunità, giacché l’unità trascende i membri della comunità, è dono da accogliere e conservare vivendo un’ardente carità.
Scegliendo la Regola agostiniana dunque Madre Maria Maddalena vuole per sé e per le sue Sorelle una vita assolutamente monastica e claustrale, ma nella quale le relazioni fraterne abbiano un ruolo di primaria importanza, esattamente come l’amore a Gesù Eucaristia, vissuto e testimoniato nella adorazione perpetua al SS. Sacramento.