1,3-5
3 πάντα δι’ αὐτοῦ ἐγένετο,
καὶ χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἕν. ὃ γέγονεν
4 ἐν αὐτῷ ζωὴ ἦν,
καὶ ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων·
5 καὶ τὸ φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει,
καὶ ἡ σκοτία αὐτὸ οὐ κατέλαβεν.
In questo 3° incontro sul Vangelo di Giovanni prendiamo in considerazione i vv. 3-5 del Prologo.
Il tema è la relazione tra il λόγος e la creazione. E’ infatti rivolto verso Dio, come abbiamo detto nello scorso incontro, ma al contempo è anche rivolto al di fuori. In Genesi si legge che la creazione è avvenuta mediante il pronunciamento, da parte di Dio, di una Parola. La parola creatrice di Dio è appunto il λόγος; ma esso ha ruolo di mediazione? O di modello? Il testo giovanneo non lascia adito a fraintendimenti: usa infatti l’espressione “per mezzo”, nel senso di “con la sua collaborazione”.
In realtà pero il termine λόγος può significare anche “progetto”, quindi non è fuori luogo affermare anche che il Padre crea avendo a modello il λόγος: è esattamente questo che supporta l’affermazione che ogni cosa trova nel λόγος il proprio compimento e la propria perfezione.
In sintesi: ogni cosa creata dipende dal λόγος e tende al λόγος.
Il v. 3, dal punto di vista sintattico, ha una costruzione piuttosto raffinata. Sono presenti contemporaneamente due figure retoriche, il chiasmo e il parallelismo antitetico.
Il chiasmo è così costruito: A B
B A
Nel nostro testo: πάντα δι’ αὐτοῦ ἐγένετο,
καὶ χωρὶς αὐτοῦ ἐγένετο οὐδὲ ἕν
In più il parallelismo antitetico proprio nel “tutto – nulla” e nel “per mezzo di lui – senza di lui”, rafforzato dall’utilizzo delle due preposizioni διά e χωρίς, positiva la prima e negativa la seconda.
Per quanto riguarda invece la scelta del verbo, ἐγένετο, esso è l’aoristo passivo del verbo γίνομαι: il che significa che l’atto creativo di Dio è avvenuto una volta per tutte (questo il significato dell’aoristo) nell’arché del tempo (vedi il significato di arché esposto nello scorso cenacolo) a opera del Padre (questo il significato del verbo al passivo: a operare è il Padre e il λόγος si pone in uno stato di totale dipendenza e obbedienza. In un solo versetto è racchiusa tutta la cristologia del QV.
Si impone ora un grosso problema di critica testuale, dovuto alla punteggiatura.
L’espressione ὅ γέγονεν (“ciò che è venuto all’esistenza”) infatti, dal punto di vista sintattico, può essere posto sia a conclusione del v.3 sia a inizio del v. 4. Gli esegeti si dividono, ma la questione si è posta fin dagli inizi.
- I papiri Bodmer I, Sinaitico, Alessandrino, Vaticano non hanno punteggiatura
- I papiri Bodmer XIV-XV, Efrem riuscritto, Claromontano, Regio, Washington, Koridethi, Verona, Cureton, le versioni copte (sahidica e fayyumica), gli scrittori antiniceni collegano ὅ γέγονεν al versetto che segue -> “Ciò che è stato fatto in lui era la vita”
- I codici Sinaitico corretto, Cipro, Monaco, San Pietroburgo, Athos e gli autori post-niceni, in polemica antiariana, collegano ὅ γέγονεν al versetto che precede, per evitare interpretazioni eretiche -> “Senza di lui nulla è stato fatto di ciò che è stato fatto”
Dal punto di vista grammaticale non c’è alcuna ragione per scegliere una piuttosto che l’altra. Sicuramente la prima presta il fianco a possibili letture gnostiche, ma è probabilmente la più antica. Le moderne edizioni critiche, tra cui quella del Nestle-Aland, optano invece per la seconda.
- La prima è stata adottata dagli ariani a dimostrazione che il Figlio ha subito dei mutamenti, perciò non è del tutto uguale al Padre; veniva infatti letto come: “ciò che il lui era stato fatto”, applicando il criterio di una sorta di “creazione” nel λόγος.
v. 4a: ἐν αὐτῷ ζωὴ ἦν
Sono 6 parole, che pongono 5 problemi.
- C’è un cambio di tempo nel verbo: si passa dall’aoristo passivo ἐγένετο al perfetto passivo γέγονεν: qualcosa avvenuto nel passato il cui effetto perdura nel presente
- L’espressione ἐν αὐτω può essere un dativo maschile, quindi da riferirsi al λόγος. Potrebbe però essere anche un dativo neutro, quindi riferibile a ὅ γέγονεν. In questo secondo caso, sarebbe presente una sfumatura stilistica: considerandolo come anacoluto, cioè come complemento posto all’inizio della proposizione in caso nominativo, sarebbe una modalità per attirare l’attenzione di chi legge. La traduzione potrebbe perciò essere: “Quanto era venuto all’esistenza, (proprio) in questo c’era (la) vita”.
- Se invece consideriamo ἐν αὐτω riferito al λόγος, anche in questo caso ci sono due possibili letture: “Quanto era venuto all’esistenza | in lui era vita”, oppure “Quanto era venuto all’esistenza in lui | era vita. La successione greca delle parole farebbe optare per quest’ultima traduzione, che è peraltro quella abbracciata da Padri quali Origene, Ambrogio, Ilario e altri antichi Padri greci. Anche gli ariani optano per questa traduzione, sostenendo ancora una volta il fatto che nel λόγος vi è stato mutamento, dunque la sua essenza non è divina come quella del Padre. Ci sono dei traduttori moderni che optano per questa traduzione affermando che vi è una sorta di riduzione della creazione, cioè una parte della creazione è venuta all’esistenza con una partecipazione particolare del λόγος (nel caso specifico la creazione dell’uomo); come spiegare allora il πάντα del v. 3? Altri Padri antichi come Eusebio, Cirillo di Alessandria, Agostino e i latini associano invece i “quanto era venuto all’esistenza” con il πάντα; dal punto di vista linguistico è più improbabile, ma ha una sua logica di pensiero, che troverebbe conferma anche in Col 1,17: “Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono”
- Il verbo essere è all’imperfetto o al presente? Alcuni papiri infatti portano ἐστίν, altri ἦν. Siccome anche in 4b è presente l’imperfetto, è probabile che anche in 4a ci fosse originariamente l’imperfetto. Il cambiamento può essere interpretato con il voler dare un connotato di universalità all’affermazione, che invece l’uso dell’imperfetto relega nel passato
- Il termine ζωή va inteso come “vita naturale” o “vita eterna”? Nel QV in genere per indicare la vita naturale si usa il termine βίος…
Sintetizzando, la frase potrebbe essere allora tradotta così: “Quanto era venuto all’esistenza, proprio in Lui trovava la vita eterna”.
v. 4b: καὶ ἡ ζωὴ ἦν τὸ φῶς τῶν ἀνθρώπων
Viene di nuovo ripreso il termine ζωή; alla luce di quanto detto sopra, si può interpretare come essere questa la grande promessa, il dono che il Padre vuole fare agli uomini che credono nel λόγος: la vita divina, che è vita eterna. Questo troverebbe conferma in GV 6,35 come anche in 11,25 e in 14,16.
C’è poi il tema della luce, che verrà poi ripreso in Gv 8,12; il λόγος non solo è luce del mondo, ma dona la luce della vita, luce che svela il vero significato della storia di ogni uomo e dell’umanità intera. Unendo i simboli della luce e della vita, se ne deduce che la luce, se accolta nella fede, è potenza per una vita che abbia senso.
C’è poi un problema dibattuto tra gli esegeti, cioè come leggere
- Come soggetto -> la vita era la luce
- Come predicato nominale -> la luce era la vita
Stando alla disposizione greca e al parallelismo a scala:
ζωή predicato nominale in 4a e soggetto in 4b
τὸ φωῶς predicato nominale in 4° e soggetto in 5°
Al di là che non ci sarebbe motivo di scambiare i termini perché entrambi hanno l’articolo, il mantenere le parole nell’ordine greco permette di notare il ribaltamento della concezione rabbinica, secondo la quale “la luce (cioè la Legge) è la vita dell’uomo: la conoscenza della Legge infatti è luce e guida per l’uomo, che viene così condotto alla vita. Giovanni invece propone il contrario, alludendo alla Legge di Mosè – e in generale all’AT – relativizzandolo: non è infatti una legge esterna all’uomo che lo orienta, ma il λόγος che è presente all’interno della creazione. Vi è anche polemica verso lo gnosticismo: la salvezza non giunge infatti attraverso la conoscenza che fa trovare la scintilla divina sepolta nel proprio essere, che libera dalla materia. Al contrario, Giovanni afferma che la salvezza è ricevuta dall’uomo tutto intero, il λόγος dona all’uomo prima la vita e poi la luce, che arriva tramite la vita stessa.
v. 5: καὶ τὸ φῶς ἐν τῇ σκοτίᾳ φαίνει, καὶ ἡ σκοτία αὐτὸ οὐ κατέλαβεν.
la prima cosa che si nota è il cambio di tempo del verbo: si passa dall’imperfetto al presente, che è il tempo della realtà. Ciò significa che l’azione si sta compiendo nel qui e ora; in altri termini: la luce è funzionale alla vita e continua a brillare nel momento presente. In altre parole: la manifestazione del verbo è vita e luce in maniera permanente.
E’ poi presente la tenebra. In Gen 1,4-5 la coppia luce-tenebre è presentata come primordiale; in seconda battuta Dio, con la sua Parola, la separa. Per Giovanni invece la tenebra non è creatura di Dio, ma il prodotto dell’uomo, della sua cecità colpevole. Inoltre la tenebra non è semplicemente assenza di luce, ma anti-luce, forza ostile alla vita. Ai vv. 10 e 11 verrà poi spiegato meglio in cosa consista la tenebra: nello stare lontani da Dio, chiusi in se stessi.
Il verbo κατέλαβεν è l’aoristo καταλαμβάνω: tradotto come “vinse”, può in realtà anche indicare una azione violenta, quindi “impossessarsi”. Durante il 1° circolo abbiamo detto come Giovanni ami le ambiguità e i doppi sensi: questo è un esempio. Leggendo, è perciò necessario tenere presenti entrambi i sensi, entrambi reali, entrambi incompleti, per cogliere la vera profondità del testo. I Padri e gli esegeti si sono sbizzarriti nel tradurre questo verbo, sottolineando più una sfumatura, più un’altra. Di certo si può affermare che la lotta tra le tenebre e la luce attraversa tutto il QV e l’esito finale è la vittoria della luce. Il fatto che le tenebre sembrano apparentemente vincere è la tipica ironia giovannea, di cui abbiamo parlato sempre durante il 1° circolo. Gesù infatti muore ma poi risorge, con segnando alla storia la vittoria definitiva. L’ammonimento è però per il lettore di ogni “oggi”, perché la luce del λόγος continuamente risplende: ogni uomo perciò è chiamato a scegliere chi/che cosa accogliere, la luce o la tenebra.