1,14-15

14 Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο 

καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν, 

καὶ ἐθεασάμεθα τὴν δόξαν αὐτοῦ, 

δόξαν ὡς μονογενοῦς παρὰ πατρός, 

πλήρης χάριτος καὶ ἀληθείας· 

15Ἰωάννης μαρτυρεῖ περὶ αὐτοῦ 

καὶ κέκραγεν λέγων· 

Οὗτος ἦν ⸂ὃν εἶπον· 

Ὁ ὀπίσω μου ἐρχόμενος 

ἔμπροσθέν μου γέγονεν, 

ὅτι πρῶτός μου ἦν·

 

 

Il v. 14 si apre con quella che è l’affermazione-chiave di tutta la fede cristiana, novità assoluta della storia.

Dal punto di vista letterario, il termine Λόγος non compariva più da 13 versetti, ma il suo ripresentarsi è completamente diverso. Mettiamo a confronto i due versetti:

v. 1 In principio era il Verbo                      v. 14  Il Verbo

       era                                                         divenne

       era rivolto verso Dio                         pose la sua tenda fra noi

       era Dio                                                divenne carne

E’ evidente che nel v.1 si parla del Λόγος all’interno della Trinità, mentre nel v. 14 del Λόγος nel mondo del divenire. Il Λόγος cioè supera quella immensa distanza tra i due mondi – quello di Dio e quello degli uomini – incarnandosi, assumendo una esistenza storica.

Anche dal punto di vista stilistico vi è una interessante struttura concentrica:

 

  1. E il Verbo divenne carne
  2. E pose la sua tenda fra noi

b’    E noi contemplammo la sua gloria

a’    La gloria (ricevuta) dal Padre in quanto Figlio unico

a - a’ = il Verbo; b – b’ = noi

Dal punto di vista contenutistico, una prima domanda che viene naturale porsi è come mai Gv abbia scelto il termine “carne” invece di “uomo”, quest’ultimo peraltro già utilizzato in riferimento a Giovanni. Il motivo è che nel linguaggio biblico il termine “carne” viene utilizzato come sineddoche, figura retorica per la quale si utilizza una parola con significato più ampio rispetto a quello che gli è proprio; nel caso specifico dunque “carne” dice tutto l’uomo inteso nella sua natura umana, ivi compresa la sua debolezza e la sua fragilità. Il Verbo, divenendo carne in Gesù, supera dunque tutta la distanza che c’è tra Dio e l’uomo. Oltretutto i due termini sono posti uno dopo l’altro, come a dire che i due opposti si toccano e si uniscono nella persona del Verbo.

 

Il verbo utilizzato, “divenne”, è accuratamente scelto in maniera polemica nei confronti del contesto storico: 

  • Il giudaismo contrapponeva infatti l’eternità di Dio e la caducità dell’uomo (cfr Is 40,6-8); con l’incarnazione non solo Dio entra nel mondo dell’uomo, ma la fragilità umana entra nel mondo di Dio
  • Il mondo greco contrapponeva il mondo di Dio (spirituale) a quello degli uomini (carnale); in quest’ultimo però c’era una scintilla divina, imprigionata, che occorreva liberare dalla materia. Giovanni si oppone dunque al dualismo affermando che il divino entra nel tempo.
  • I docetisti (dal verbo δοκέω, apparire) negavano la realtà dall’incarnazione, sostenendo che il Verbo aveva assunto l’apparenza della carne, ma non si era realmente fatto carne. 

 

Tale Λόγος dunque “pose la sua tenda tra noi”. Il verbo greco utilizzato è σκηνόω ; il corrispettivo ebraico è shākan, che significa avere sede-dimorare-abitare e da esso deriva il sostantivo shekinâ, la dimora. 

Nell’AT il tetragramma sacro JHWH è spesso sostituito dal termine shākan per indicare la presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Si comprende bene perciò come Giovanni, scegliendo questo verbo, dica che il testo di Es 40,34-35 giunge a compimento con la definitiva presenza di Dio tra gli uomini grazie al Λόγος. Questo concetto sarà ripreso poi anche in Ap 21,3.

In realtà nell’AT vi è un’altra presenza di Dio in mezzo agli uomini: è la Sapienza (cfr Sir 24,7-10). E’ anch’essa una prefigurazione; il di più del Verbo è che è presente in mezzo agli uomini senza la mediazione della tenda o della Legge, ma con la sua carne umana pienamente assunta. In più, la dimora non è posta in Israele o in Giacobbe, bensì “tra noi”: il “noi” compare qui per la prima volta e ricomparirà implicitamente nel verbo “contemplammo”. Il Λόγος dunque pone la sua tenda:

  • Nel κόσμος, cioè in mezzo all’intera umanità
  • Tra coloro che sono stati testimoni dell’esistenza terrena di Gesù (in riferimento al “contemplammo”) riconoscendolo come il Figlio di Dio.
  • Tra coloro che, grazie all’annuncio apostolico, per fede credono in Lui (in riferimento al “noi tutti ricevemmo…”)

 

 “Contemplammo” apre a una professione di fede. Il verbo è θεάομαι, lo stesso utilizzato per la risurrezione, e indica quello sguardo ammirato sull’oggetto di fede nella fede che è capace di approfondire la verità: si tratta, in altri termini, di passare dall’esperienza fenomenica all’esperienza profonda di ciò che la carne cela. L’espressione “contemplare la gloria” è tipica di Gv: nel vangelo compare 18 volte. 

 

Oggetto della contemplazione è la gloria/δόξα/kābôd, che corrisponde all’Essere Divino nel suo splendore. Ebbene, per Gv tale suprema epifania di Dio. È nella carne del Λόγος; in particolare, la carne crocifissa di Gesù è lo splendore della gloria per eccellenza, perché in essa si manifesta l’amore agapico del Padre. Lì Dio si manifesta come Trinità d’Amore.

La gloria che Gesù riceve dal Padre è ricevuta ὡς, “come” nel senso di “in quanto” Figlio unigenito: non viene cioè enunciato un termine di paragone (come il Padre, così il Figlio), ma un fondamento teologico. Il termine μονοηενής, unigenito, è usato solo da Gv nel NT; tale gloria era posseduta dal Figlio quando era completamente rivolto verso il Padre “prima che il mondo fosse” (cfr 17,5).

 

La “pienezza” di cui si parla è affidata in greco all’aggettivo πλήρης che, seguito dal genitivo, diventa indeclinabile; traducendolo come un sostantivo, si supera la questione grammaticale legata al fatto che è un aggettivo a due uscite (quindi maschile e femminile sono identici). L’unico nominativo a cui può essere riferito è il Λόγος, ma è posizionato troppo lontano, dunque considerandolo come indeclinabile può essere riferito sia alla “gloria”, sia al Verbo, sia al Padre: tutte e tre le opzioni sono grammaticalmente corrette è tutte in tre in linea con il pensiero teologico di Gv! Interessante è l’abbinamento alla “gloria”, per cui risulterebbe: “contemplammo la gloria di Lui, che è pienezza di grazia e di verità”.

 

“Grazia e verità” sono da intendersi come due realtà diverse o siamo di fronte a una endiadi (figura retorica per cui due termini sono complementari uno all’altro, spesso un sostantivo + un aggettivo: es “notte oscura”)? Entrambe le possibilità sono tecnicamente corrette, ma all’orecchio abituato alla Scrittura viene subito alla mente esed wemet, l’amore misericordioso di Dio per il suo popolo. In questo caso al termine esedcorrisponde il termine χάρις, cioè bontà-benevolenza-grazia di Dio; al termine wemet corrisponde ἀλήθεια, cioè stabilità-fedeltà alle promesse (cfr Es 34,6-7)

In altri termini il Verbo risulta essere quella verità che comunica all’uomo la grazia del Padre.

 

Il v. 15 riprende la testimonianza di Giovanni, che era già stato presentato nei versetti 6-8: là era la “voce” che ricapitolava in sé tutte le profezie, qui è legato all’incarnazione storica del Λόγος in Gesù di Nazaret. 

La sua testimonianza è espressa con il verbo μαρτυρεῖ, che è un presente, e con il verbo κέκραγεν (“grida”) che è un perfetto, tempo verbale che esprime una azione che inizia nel passato e perdura nel presente. Detto in altre parole, l’azione di Giovanni ha per obiettivo richiamare l’attenzione dell’uomo sulla missione del Verbo, che è pre-esistente.

Il perno della testimonianza è la preposizione ἔμπροσθέν, che gli esegeti hanno tradotto in molteplici modi: sopra-superiore-prima-davanti-avanti, a seconda della sfumatura temporale o spaziale che hanno voluto dare. Parafrasando, si potrebbe dire: Giovanni afferma che Gesù ha iniziato temporalmente la sua missione dopo di lui, ma lo ha superato – dimostrando in ciò la sua superiorità – perché essendo Verbo eterno di Dio Padre è pre-esistente”. 

La testimonianza di Giovanni introduce la confessione di fede dei credenti, come scritto nei vv.16-18.