ORIGINI REMOTE dell'esicasmo

L’utilizzo delle tecniche psico-fisiche all’interno di un percorso di preghiera e di ricerca dell’unione con Dio è caratteristica di moltissime tradizioni religiose, tra le quali l’esicasmo di colloca per ultima. Tra le più antiche si pone quella induista, che è utile presentare nei suoi lineamenti principali, prima di addentrarsi nell’analisi di quel testo che è all’origine del metodo esicasta.

Innanzitutto una definizione terminologica: con il vocabolo «induismo» vengono indicate una molteplicità di esperienze religiose similari nate nell’Asia meridionale. La prima a essere documentata con testi scritti è quella vedica, tra il 1700 e il 1200 a.C., le cui Scritture sono chiamate appunto Veda, ritenute di origine soprannaturale: i sapienti e i veggenti infatti li hanno uditi e poi semplicemente riferiti ad altri. Tali raccolte risalgono al 1500-600 a.C. e sono quattro. Esistono poi anche i Purāṇa, antichi racconti vishnuiti e śivaiti, redatti tra il 6000 a.C. e il 400 d.C., nonché i Rāmāyaṇa, che descrive le vicende di Rāma, incarnazione di Viṣṇu, redatto nei primi secolo dopo Cristo. 

Tutte le religioni hindū sono tantriche a partire dal VI secolo d.C., in cui la prassi ha un ruolo essenziale; esse hanno messo radici in India a partire dal VI-VII secolo d. C attraverso il brahmanesimo e si sono sviluppate fino al XVIII secolo. Terreno fecondo è quello di confine, a ovest con il Pakistan e a est con il Bengala, soprattutto nell’Assam. Al cuore del tantrismo c’è il tentativo di porre il desiderio (kāma) al servizio della liberazione; questo unito alla particolare visione di una corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo, in un sistema omnicomprensivo. Il percorso tantrico è a tappe, con cerimoniali; la realtà ultima è l’assenza di ogni dualismo, l’advaita. La letteratura tantrica è contenuta in una raccolta chiamata Āgama. Le rivelazioni tantriche divine sono trasmesse all’umanità grazie alla successione di maestri spirituali i cui insegnamenti devono rimanere segreti: per questo il linguaggio dei testi è criptico. Il percorso tantrico comincia con un rito di iniziazione (dīkṣā) durante la quale al discepolo viene consegnato un mantra segreto. E’ l’inizio di una nuova vita. Tutti possono accedervi, indipendentemente dal sesso o dalla casta, perché ha carattere religioso e non sociale. Alla base del mantra c’è la convinzione che i suoni – siano essi parole e/o lettere – hanno vibrazioni penetranti e trasformanti e che trasmettono il potere della divinità cui sono associati. Sono spesso associati a degli yantra, diagrammi mistici che aiutano nella concentrazione, e ai mudrā, gesti simbolici rituali. Il mantra ha per fine quello di risvegliare la kuṇḍalinī che, come un serpente arrotolato, giace alla base della spina dorsale, per far sì che risalga lungo la spina dorsale e si unisca al «Supremo», fondendosi così nella «Realtà ultima». Ciò è possibile combinando posture del corpo e controllo della respirazione, come insegna l’haṭayoga. Come poi anche il buddhismo, il fine è liberarsi da quell’ignoranza che è all’origine della sofferenza: gli stati psichici, confusi con lo spirito. Il primo passo è costituito dall’imparare a concentrarsi su un singolo oggetto, diventando insensibile a qualunque stimolo proveniente dai sensi o dalla memoria. Il corpo deve essere in una posizione comoda e non in tensione. La respirazione è controllata, regolare e ritmica. Questo permette l’unificazione dei pensieri (ekāgratā). Controllando i sensi e il subconscio, si giunge al pieno governo della attività mentale. Il passo successivo è imparare le otto tecniche fisiche e i corrispettivi esercizi spirituali. Sono:

 

1. Yama, cioè astinenza: dalla violenza, dal falso, dal furto, dall’attività sessuale, dall’avarizia.

2. Niyama, cioè osservanza: pulizia, serenità ascesi, lettura delle scritture, servizio (agli uomini, alle piante, agli animali), abbandono a Dio.

3. Āsana, cioè posture: riducono lo sforzo fisico, dandogli stabilità. La coscienza non è più distratta dal corpo.

4. Prāṇāyāma, cioè controllo del respiro. Inizialmente il ritmo respiratorio viene ridotto; quando diventa ritmico e le funzioni del corpo sono sospese grazie agli āsana, allora la coscienza è in grado di controllare una singola cosa. Secondo gli yogin esiste una stretta correlazione tra respiro ritmico e rallentato e stato della coscienza: è possibile infatti penetrare in livelli inaccessibili quando si è in uno stato di veglia. La respirazione ritmica ha tre momenti: inspirazione, ritenzione, espirazione. Devono avere la stessa durata che, pian piano, può essere notevolmente aumentata. 

5. Pratyāhāra, cioè ritrazione dei sensi: non si conosce più la realtà attraverso appunto i sensi, ma per contemplazione intellettuale, dunque nella sua essenza e nella sua forma spirituale. E’ l’ultima tappa del percorso psico-fisico, perché da qui in poi lo yogin non è più disturbato dai sensi e dalla vita psichica. 

6. Dhāraṇā, cioè concentrazione assoluta su un solo punto.

7. Dhyāna, cioè meditazione: il pensiero è totalmente unificato

8. Samādhi, cioè unione con l’oggetto di meditazione. A questo livello lo yogin può avere la rivelazione del Sé supremo.

 

In questo percorso il corpo gioca un ruolo essenziale, ma accanto a quello fisico è necessario prendere in considerazione quello sottile, psichico e mistico, che ha una anatomia propria. Il corpo fisico è quello biologico, grossolano; quello psichico pensa e decide; quello mistico è il sé, contenuto negli altri due, che gli avvolgono attorno degli strati di spessore decrescente. Quest’ultimo è la consapevolezza pura che trascende tutti gli stati psicologici. Il corpo sottile è costituito da settantaduemila nāḍī cioè canali, all’interno dei quali scorre l’energia vitale (prāṇa), da alcuni centri (cakra) e da dei nodi ove i canali si incontrano con i nervi del corpo fisico. Il prāṇa sostiene il corpo biologico e la mente; cinque sono i tipi di respiro individuale, detti vāyu (vento)[1]:

 

1. Prāṇa, che scaturisce dall’ombelico o dal cuore, inspirato ed espirato

2. Apāna, nella metà inferiore del tronco

3. Vyāna, che circola in tutte le membra4. Udāna, nei chackra superiori della testa, legati allo stato di coscienza

5. Samāna, nell’addome, legato alla digestione

 

Sono chiamati «guardiani dell’ingresso del mondo dei cieli», a testimonianza del profondo legame esistente tra il respiro e la coscienza.

Lungo la spina dorsale vi sono tre nadi importanti: Iḍā e Piṅgalā fanno una treccia attorno a Suṣumṇā, centrale. Uniscono il chakra inferiore con quello superiore. Finalità del tantra è che l’energia divina fluisca tramite il canale centrale, mentre i due laterali fanno capo alla narice sinistra e destra rispettivamente, assimilate al Sole e alla Luna[2], e collaborano alla unificazione del microcosmo e del macrocosmo. I chakra sono sette: a ciascuno sono collegate una o più divinità e ognuno sovrintende a dei centri. Essi sono[3]:

 

1. Mūlādhāra, alla base della colonna vertebrale. Viene visualizzato come un loto rosso con quattro petali, al cui centro è presente un quadrato giallo, simbolo della Terra, con inscritto un triangolo con la punta verso il basso, ove dorme la kuṇḍalinī, arrotolata otto volte su se stessa.

2. Svādiṣṭhāna, sopra la radice dell’organo genitale maschile. La visualizzazione è un loto a sei petali rosso-arancione; è legato al simbolo dell’acqua e al respiro.

3. Maṇipūra, nella zona lombare all’altezza dell’ombelico. Il loto ha dieci petali, blu; è legato al simbolo del fuoco, alla vista e al respiro.

4. Anāhata, nella regione del cuore. Il loto ha dodici petali color oro e dentro ci sono due triangoli che formano la stella di David. E’ collegato all’elemento aria e al senso del tatto.

5. Viśuddha, con sede nella gola. Il loto è rosso cenere con sedici petali. E’ in relazione con l’etere, con il suono e con la pelle.

6. Ājñā, tra le sopracciglia. Il loto è bianco con due petali. E’ la sede di tutte le funzioni cognitive e dei sensi quando vengono utilizzati in maniera sottile.

7. Sahasrāra, alla sommità della testa. E’ un loto capovolto con mille petali. Non appartiene più al corpo. Qui si sperimenta l’unione finale, il sādhana tantrico.

 

All’inizio le nadi sono impure; le tecniche psicofisiche hanno la funzione di aprirle in modo che l’energia, risvegliata, possa scorrere verso l’alto. Quando si praticano gli esercizi, la parte attraversata dalla kuṇḍalinī è bollente, mentre il resto del corpo è molto freddo. Per risvegliare la kuṇḍalinī è necessario controllare il respiro, facendo sì che diventi ritmico. La respirazione avviene esclusivamente attraverso le narici e il respiro viene fatto circolare all’interno del corpo grazie a tre contrazioni: blocco del mento, sollevamento del diaframma, sfintere serrato. Grazie a queste tecniche lo yogin giunge a identificarsi con il corpo sottile e tramite esso a conoscere tutti i misteri che dal macrocosmo penetrano in lui, microcosmo.

 


[1] G. Cella Al-Khamali, Il grande libro dello yoga, 2010, 309-313.

[2] C. Namkai Norbu, Yantra yoga, 2021, 1-34.

[3] G. Cella Al-Khamali, Il grande libro dello yoga, 33-66.