ORIGINI PROSSIME dell'esicasmo

Tra i testi redatti dal maestri yogin uno ha avuto particolare successo oltre i confini dell’induismo: si tratta dell’ Amṛtakuṇḍa, opera redatta tra il XIII e il XV secolo d.C[1]. e a noi non pervenuto nella sua redazione originale. Di autore anonimo la prima stesura, sembra essere una traduzione in persiano del testo sanscrito «Ottantaquattro versi di Kamakhya» con aggiunta di tematiche legate all’ haṭayoga e indicazioni per esercizi di yoga tantrico. Una seconda redazione, con aggiunte, è di un altro redattore anonimo, aiutato dallo yogin Ambhuanath I, cui segue una terza e una quarta redazione in arabo. Queste ultime due sono a noi pervenute. Il traduttore è un persiano con scarsa conoscenza dell’arabo, perché il testo mostra vocaboli arabi, ma sintassi persiana, insieme a vocaboli sanscriti e ad altri che appartengono alla filosofia greca; vi sono anche rimandi alla filosofia aristotelica e ad Avicenna (Ibn Sīna).

Nella introduzione si dice che il testo è giunto tra i musulmani per mezzo di Rukn al Dīn al Samarqandī, giurista del tempo del sultano ‘Alī Mardanī. Costui avrebbe avuto contatti con uno yogin e, rimasto affascinato dalle dottrine yoga, se le fa spiegare[2]. Nella traduzione però non ci si attiene al testo originario, ma si introducono numerosi rimandi all’Islam – testi coranici e sufici[3] –. Nonostante questo però resta un compendio delle principali tecniche tantriche. Non vi è alcun altro testo islamico che tratti tali argomenti, se non quelli sufici posteriori, che riprendono queste teorie.

Il testo in questione è composto di dieci capitoli, dei quali il quinto è quello più interessante in relazione alla tecnica del respiro, che però viene trattato fin dall’inizio.


Il primo è essenziale per poter comprendere la relazione tra microcosmo e macrocosmo; le corrispondenze tra i due però non sono esposte con il tipico linguaggio tantrico, bensì con citazioni dal Corano e dalle ahadit e con una impostazione filosofica tipicamente musulmana. Si legge:

Egli disse: l’uomo è un microcosmo: ogni cosa che esiste nel macrocosmo nella sua interezza, esiste anche in forma ridotta nel microcosmo. Il Sole e la luna nel microcosmo sono le narici: quella di destra ha la funzione del Sole e quella di sinistra la funzione della luna. Fa parte delle grandi meraviglie il fatto che tutte e due le narici siano uguali mentre il respiro, invece, esce a volte da quella di destra e a volte da quella di sinistra, alternativamente. Questa è la prova che esse sono due contrari e non vanno d’accordo; raramente concordano tra di loro se non in occasioni determinate […] Il macrocosmo è “come se fosse un’anima unica” e l’intelletto universale ne è lo spirito e il segreto del Creatore - che sia esaltato. Così anche il microcosmo è “come se fosse un’anima unica e l’anima razionale è lo spirito (del microcosmo dell’uomo). E come l’intelletto entra ed esce dal microcosmo, ma non come si entra e si esce da un una cosa fisica, così il Creatore - che sia esaltato e che sia proclamato santo - si trova nel macrocosmo. Di conseguenza colui che conosce questo conosce l’Eccelso necessariamente. “Chi conosce se stesso conosce il suo Signore”. [chi di voi conosce meglio se stesso è chi conosce meglio il suo Signore][4].

 

Nel secondo capitolo ancora viene trattato il tema della respirazione, sottolineando l’importanza dei due canali (solare e lunare) e il controllo di esso. Si legge:

È evidente l’influsso del Sole e della Luna nel microcosmo: senza di loro non si completa l’immagine del tutto. Tutti i sapienti sono d’accordo che l’uomo, se non inspira nel giorno solo dalla Luna e nella notte solo dal Sole, [deve farlo], affinché diventi abitudine per sempre e senza fatica. Se raggiunge questa fase, non gli si attacca nessun dolore, nessuna sofferenza e non sarà colpito né da caldo né da freddo, né da veleno né da magia, rimarrà giovane, forte non invecchierà e non indeboliranno le sue forze[5].

In realtà non si tratta di gestire semplicemente le fasi dell’atto respiratorio tramite il prāṇāyāma; si è in presenza di una autentica scienza della gestione dell’energia creativa, cioè della prāṇa-śakti. Vi è una associazione tra la respirazione e i quattro elementi, messi in relazione con le energie vitali:

1. Il prāṇa presiede al calore corporeo e ha sede nell’ombelico: elemento fuoco. Si  muove verso l’alto; se purificato, è base del calore psichico sottile. A esso si deve la beatitudine.

2. Il prāṇa si diffonde in tutto il corpo collegando le varie membra: elemento aria.

3. Il prāṇa è in relazione a ciò che si espelle dal corpo: elemento acqua.

4. Il prāṇa attiva tutti i sensi: elemento terra.

Il prāṇa è anche il primo dei centri grossolani e ha sede nel collo: elemento cielo, inteso come etere, come spazio. Meta finale è Brahaman, incommensurabile. In questo capitolo inoltre il respiro viene associato alla pratica divinatoria; non è cosa nuova, dal momento che già il trattato persiano Kumrubijaksa trattava l’argomento, come pure il Śivasvarodaya. Lo scopo non è tanto la conoscenza di ciò che deve accadere, ma il poter controllare gli eventi per modificarli a proprio vantaggio. Da ultimo, si tratta di tecniche di respirazione per purificare il corpo:

1. bhrumadhya-ḍrṣṭi, raggiungibile da tutti. È lo stato di meditazione.

2. trāṭaka, per curare i disturbi degli occhi e prevenire la pigrizia.

3. śitalī, con funzione disintossicante.

4. khecarī-mudrā, per dominare la morte.

Sono presentate tecniche che trattano dell’unione sessuale che, grazie al tantrismo, può essere suprema beatitudine.

 

Nel terzo capitolo viene insegnata la tecnica sufi della «scienza del cuore», che è la conoscenza profonda della propria coscienza, la meditazione profonda. In arabo la radice del termine “cuore” è “q-l-b”, che significa cambiare, trasformare., ma anche oscillare. Per questo si legge: «Il microcosmo è il segreto delle cose esistenti e il suo significato è il “loto di Muntahā”[6], è il luogo più estremo, in esso vi sono le meraviglie del cielo e della terra; esso incessantemente si muove come gli astri (la volta celeste), nella fortuna e nella sfortuna»[7].

Vi è anche un riferimento ai segni zodiacali, forze positive e negative che vengono prese dall’universo e che si diffondono in tutto il corpo; con la ripetizione continua dei Nomi si neutralizza il nero e si raggiunge lo stato di santità. Anche questi elementi sono presi dalla tradizione yogica che pone i segni zodiacali nei chakra, come pure i pianeti nei centri spinali.

Il percorso prevede ascesi. Si legge infatti:

Il maestro dovrebbe insegnare al discepolo questa facoltà: se hai potuto con la tua lotta guardare gli abitanti della “valle sinistra”, cancellali radicalmente e cambiali con gli abitanti “della valle destra”[8] e questo stato si svela. Questo non succede se non con la felicità eterna, l’esercizio e la lotta. Giungerà a te questo stato e, togliendo l’immaginazione, raggiungerai il desiderato, che è lo stato dei profeti, dei santi e dei puri, la benedizione di Dio – l’Eccelso – sia su tutti loro[9].

 

Nel quarto capitolo vi sono prescrizioni ascetiche e descrizioni di posture da praticare: sono importanti discipline psicofisiche ritenute utili per la purificazione del corpo. Sono prese completamente dallo yoga. Esse sono: la posizione del loto, lo sguardo all’ombelico e la recita dello ḍikr. La posizione del loto è considerata quella meditativa per antonomasia; l’ombelico è il centro in cui le energie sessuali vengono trasformate per poter procedere verso l’alto e l’uomo si elevi, senza più possibilità di regressione.

 

Nel quinto capitolo si afferma che il luogo in cui si trova l’anima è lo stomaco e da qui partono tutti i canali per la depurazione del corpo. Concentrarsi perciò su questo centro permette di ottenere la piena conoscenza del corpo fisico. In stretta correlazione, vengono suggerite norme dietetiche. Infine vengono indicate delle tecniche di respirazione: ritmo, durata, modalità. La finalità è la purificazione dei canali psichici. Il tutto accompagnato dalla recita dello ḍikr. Sono citati tre profeti della tradizione islamica che simboleggiano il prāṇāyāma e hanno il compito di permettere alla energia interiore di risalire  obiettivo è il raggiungimento «dell’acqua della vita», l’ Amṛtakuṇḍa, in arabo Ḥawd mā’ al ḥayāt, che è l’energia sottile che transita lungo la spina dorsale. 

La prima parte dell’uscita del respiro è calcolata. Accade che, nell’uscire, la misura raggiunga da (quattro) fino a dodici dita di forza. Nell’entrare quattro dita. Diminuisci ogni respiro nella misura di otto dita. Guarda quanto diminuisce in ogni giorno: questo dà la vita. E’ necessario che ci si metta con garbo e con persuasione; al contrario, si deve prendere il respiro con la forza e farlo uscire con gentilezza e dolcezza, prendere dodici dita e rilasciarne quattro. Quando giungi a questo stato, attirerai a te il comando reale. Considera attentamente l’aspetto specifico in tre cose: nel feto che respira; egli è nella sua placenta e fa gonfiare il ventre di sua madre; nel pesce, come respira nell’acqua eppure l’acqua non entra; come l’albero aspira l’acqua dalle radici e la fa salire nelle parti superiori. Il feto è uno šayḫ ed è al Ḫiḍr – su di lui la pace. Il pesce è uno šayḫ tra il segreto ed è Giona. L’albero è uno šayḫcustode ed è Elia. Essi sono coloro che conducono all’acqua della vita. Quando si realizzano queste cose per la scienza e per l’esperienza spirituale, prendi la lanterna che è la menzione [di Dio] suddetta, e giungi in questo stato sempre immergendoti fino a realizzare e creare questo con la scienza, la pratica e l’esperienza spirituale, finché giungi all’acqua della vita e alla visione dell’arcano senza mediatore[10].

 

Nel sesto capitolo vengono trattate le tre ritenzioni fondamentali: del respiro, del pensiero e del seme; il tutto è conforme all’haṭayoga.

 

Nel settimo capitolo si fa una corrispondenza tra chakra, yantra, colore, pianeta e mantra. Utilizzando suoni mistici si risvegliano le forze corrispondenti. I mantra sono stati tradotti con i Nomi divini della tradizione islamica.

 

Nell’ottavo capitolo si indica come riconoscere i segni della morte e come allontanarli; questo è possibile grazie al recupero dell’energia dispersa, concentrandosi sui chakra. Il corpo viene così riportato alla vita.

 

Nel nono capitolo prosegue la spiegazione circa la meditazione sui chakra, sulle dèe femminili che li presiedono e sulle energie spirituali. Il contatto con le divinità è importante perché permette o di ottenere i loro poteri o di esserne soggiogato. Essere liberato significa entrare nella condizione siddha; il riferimento è alle dottrine di Patañjali.

 

Nel decimo capitolo infine si fa un riassunto di tutto quanto esposto nell’ Amṛtakuṇḍa.

 

Nell’esicasmo la tecnica psicofisica è presente soprattutto, come si è visto nel paragrafo precedente, negli scritti dello Pseudo-Simeone e in Niceforo e hanno una notevole affinità con quelle utilizzate nello yoga tantrico. 

La Greppi nel suo testo[11] fa notare che:

1. lo scritto dello Pseudo-Simeone è una sintesi di yoga tantrico, soprattutto relativamente alla postura del mento e alla concentrazione sull’ombelico

2. lo yoga tantrico propone ottantaquattro posture, ma quella centrale è l’appoggiare il mento sul petto e concentrarsi sull’ombelico

3. l’ Amṛtakuṇḍa propone un percorso che ha per meta la concentrazione nella zona ombelicale

4. nel mondo musulmano lo sviluppo delle tecniche avviene a partire dalla divulgazione dell’ Amṛtakuṇḍa; molte le copie ritrovate in Persia, in Turchia e nello Yemen.

 

I documenti che testimoniano relazioni tra monaci cristiani e sufi, soprattutto nel XIII secolo, sono pochissimi e tutti a carattere apologetico. E’ però impensabile che in Medio Oriente essi non abbiano avuto contatti reciproci: basti pensare all’incontro di Francesco con il sultano Ayyubide a Damietta, in Egitto, ma anche in Siria, in Palestina e nella Mesopotamia. Prova indiretta è il tipo di ascetismo praticato da alcuni sufi e il loro linguaggio, così simile a quello della tradizione cristiana siriaca del IV-VII secolo.

Del resto, eccezion fatta dell’ Amṛtakuṇḍa, non esistono documenti che testimonino una relazione tra i mistici musulmani e la tradizione indiana.

La confraternita sufica della kubrawiyya[12] pone per prima l’attenzione sui centri sottili. Da essa di diramano molte altre confraternite, ma soprattutto esistono rapporti tra i vari maestri, quindi le tecniche si diffondono, anche se di fatto è impossibile dire con esattezza quando e dove. Il dato certo è che negli scritti sufici posteriori all’Amṛtakuṇḍa iniziano a comparire tecniche psicofisiche. Ogni tariqā personalizza il linguaggio, il passaggio dal persiano all’arabo fa la sua parte, ma il centro della tecnica si mantiene. 

 

In Anatolia poi i mistici musulmani vivono a stretto contatto con il clero bizantino quindi non è per nulla fantasioso supporre una iniziazione da parte dei primi ai secondi; dai secondi ai monaci dell’Athos il passo è breve.

 


[1] C. Greppi, L’origine del metodo psicofisico esicasta, 2011, 128-142

[2] In questo contesto viene sottolineato come non sia sufficiente la lettura di un testo, ma sia indispensabile la presenza di un maestro.

[3] Nel tentativo di dare autorevolezza al testo, vengono arbitrariamente attribuiti a Ibn ‘Arabī.

[4] C. Greppi, L’origine del metodo psicofisico esicasta, 144-146.

[5] Ibid., 150.

[6] Corano 53,14.

[7] C. Greppi, L’origine del metodo psicofisico esicasta, 154.

[8] Corano 28,30.

[9] C. Greppi, L’origine del metodo psicofisico esicasta,156.

[10] Ibid., 166-167.

[11] Ibid., 213.

[12] Mettere la pagina della tesi.