L'ESICASMO E LE SUE TAPPE

L'esicasmo e le sue tappe
da Arsenio a oggi
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INTRODUZIONE

 

L’esicasmo nasce come forma di orazione all’interno della tradizione cristiana. Affinché un stile di preghiera possa dirsi cristiano è necessario che essa consista in una relazione di comunione amorosa con il Padre, per Gesù Cristo, nello Spirito Santo. La modalità poi con cui questa unione si concretizza è molteplice, come testimoniano le varie spiritualità all’interno della Chiesa, sia d’Oriente come di Occidente; sempre essa è una preghiera ecclesiale, nasce nella Chiesa, si nutre nella Chiesa, alimenta la santità della Chiesa. 

L’orante entra con tutto se stesso nel dinamismo della preghiera, che consiste in un cammino dall’esteriorità verso l’interiorità, con il coinvolgimento del corpo, della mente e dello spirito. 

Relativamente al livello corporale, pregare con il corpo significa coinvolgerlo in movimenti quali l’inchinarsi, l’inginocchiarsi, il sedersi, lo stare in piedi: basti pensare a tutta la ricchezza legata alle posture durante la celebrazione eucaristica. A questo aspetto appartiene anche la preghiera vocale: la celebrazione della Liturgia eucaristica con la proclamazione della Parola di Dio e i dialoghi celebrante-assemblea, la recita della Liturgia delle Ore, il canto, le giaculatorie, la preghiera devozionale (dal rosario alle molteplici “coroncine”). Evidentemente se si rimanesse al puro livello esteriore non si tratterebbe di autentica preghiera. Essa deve infatti farsi preghiera della mente, livello nel quale la preghiera si fa più riflessiva e vi è pure una attività intellettuale; in Occidente viene indicata col termine di “meditazione” od “orazione di quiete”. Come però sottolinea l’Oriente cristiano, essa è imperfetta e incompleta se non risolve sul terzo livello, quello più autenticamente spirituale: è la preghiera del cuore, ove per cuore non si intende la sede degli affetti e delle emozioni, bensì la parte più interiore dell’uomo, inabitata da Dio. A questo livello la persona di unifica in Lui, la preghiera si fa contemplativa e si giunge a uno stato di unione con l’intera Trinità. Si ha qui il passaggio dai tempi e momenti di preghiera allo stato di preghiera continua, in cui il dialogo interiore con Dio è continuo, indipendentemente dalle attività che si compiono esteriormente; esso è però sempre supportato dalla preghiera vocale e da quella meditativa. Questo terzo livello di preghiera non è soltanto per pochi eletti o per chi compie una scelta di vita al cui centro vi è la preghiera, come per esempio i monaci e le monache. Stando alla Sacra Scrittura infatti la preghiera continua è un comando: «Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa infatti è volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (1Ts 5,16-18). La pienezza della vita dell’uomo non consiste soltanto nella sua realizzazione storica, intramondana, bensì nella sua deificazione. Ciò è puro dono che si riceve da Dio, per Gesù Cristo risorto, nello spirito. E’ donato innanzitutto nei sacramenti, nel battesimo e nell’eucaristia in particolare, ma richiede l’attiva accoglienza da parte dell’uomo. La preghiera continua è la ricerca della consapevolezza personale della vita divina, operante e beatificante, nel cuore del battezzato. 

Al fine di facilitare la preghiera continua, sia nell’Oriente sia nell’Occidente cristiano fanno la loro comparsa delle bevi formule, tendenzialmente di supplica. Tra queste si impone quella legata alla ripetizione del Nome di Gesù, ritmata sul respiro; può consistere nel solo Nome «Gesù», oppure nella formula più ampia «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me», oppure come in Russia « Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore»; può essere ripetuta al singolare o al plurale. Con una formula monologica si esprime un atto di fede nella messianicità divina di Gesù, si implora la sua misericordia, ci si confessa peccatori. Questa formula passa per i tre livelli di preghiera. All’inizio è una continua ripetizione vocale, pronunciata ad alta voce oppure sussurrata dalle labbra, fatta con umiltà e perseveranza. Con il tempo, la voce o le labbra cedono il passo a una sempre più profonda interiorizzazione, in cui protagoniste diventano l’attenzione e la concentrazione, fino ad assumere un suo ritmo proprio, indipendente dalla volontà. Da ultimo la preghiera giunge a permeare tutta la persona e si ritma non più sul respiro, ma sul battito del cuore, divenendo incessante. Non vi è più alcuno sforzo, anzi da essa sgorgano pace e gioia. La preghiera del cuore diventa una sorta di liturgia interiorizzata, si vive alla costante presenza di Dio, al punto che si realizzano le parole di S. Paolo: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). 

L’attenzione al Nome di Gesù caratterizza la Chiesa fin dai suoi inizi, come testimoniato da Fil 2,9-10 o At 4,10-12 o Gv 16,23-24. In un tempo però non ben precisabile, forse coincidente con la nascita del monachesimo cristiano nel deserto, inizia a farsi strada una corrente spirituale a orientamento prevalentemente contemplativo che ricerca l’unione con Dio tramite la preghiera incessante. Ha per presupposto la quiete, indispensabile alla preghiera, che consiste nella invocazione e nella attenzione del cuore al Nome di Gesù. Tre i suoi obiettivi: camminare alla presenza di Dio, essere liberati da ogni peccato e restare nel riposo di Dio, in ascolto della Sua Parola. Tale movimento spirituale viene chiamato «esicasmo», dal greco hesychia, cioè “quiete”. Questo termine ha in realtà molteplici sfaccettature che vengono espresse talvolta con il termine tranquillità, o pace, o quiete, o silenzio. Il termine greco deriva forse dal verbo hèsthai, cioè “stare seduto”, “essere assiso”. Nella letteratura monastica antica[1] il termine viene utilizzato per descrivere prima di tutto lo stato d’animo caratterizzato dalla quiete e dalla pace, intesi come condizione stabile del cuore, indispensabili per la contemplazione; accanto a questo però anche l’accezione di solitudine e silenzio, cioè distacco dal mondo  esteriore. Ben diverso è questo atteggiamento interiore dalla apàtheia degli stoici[2], che mira alla liberazione dalle quattro passioni fondamentali: tristezza, timore, desiderio e piacere. Non meno diverso dalla ataraxìa degli epicurei[3], che puntano a rendere libera l’anima dalle preoccupazioni della vita. Per questi filosofi infatti la pace dell’anima è il fine, per gli esicasti è il mezzo per predisporsi ad accogliere il dono dell’unione con Dio, unica pienezza di vita. Come scrive Brunini, «L’esichia in definitiva è l’atteggiamento di chi nel proprio cuore si pone alla presenza di Dio»[4].

 

[1] Cf. Detti editi e inediti dei padri del deserto, Qiqajon, Magnano, 2002.

[2] L. Rossi, I filosofi greci padri dell’esicasmo. La sintesi di Nikodemo Aghiorita. Il leone verde, Torino, 2000, 198-204.

[3] Ibid., 189-197.

[4] M. Brunini, La preghiera del cuore nella spiritualità dell’Oriente cristiano, EMP, Padova, 1997, 89.

ARSENIO

 

Padre degli esicasti è, per la tradizione, Arsenio. Nato a Roma nel 354 circa, è dapprima precettore di Arcadio e Onorio, i figli dell’imperatore Teodosio I, poi eremita e Padre del deserto. Muore a Troe nel 450. Si narra che quando è ancora nel palazzo imperiale pregasse Dio supplicandolo di mostrargli la via della salvezza e che abbia udito una voce rispondergli di fuggire gli uomini per essere salvato. Da qui la sua scelta di vita anacoretica. Anche in questo stato di vita però ripete la sua domanda a Dio, udendo di nuovo una voce che lo invita a fuggire il mondo, a restare in silenzio e a riposare nella pace (hesychia).  Da questa sua esperienza nasce la triade cara agli esicasti: fuge, tace, quiesce[1]. Essa definisce il profilo spirituale di ogni monaco esicasta. Il primo aspetto che caratterizza il monaco è la solitudine, cioè la riduzione al minimo dei contatti con il mondo e con gli altri uomini. Il motivo è poter garantire spazi di calma e tempi di silenzio per poter ricevere da Dio la Sua formazione e per imparare a cogliere la Sua silenziosa presenza. Con questo non si demonizzano le relazioni umane; al contrario, alcune possono essere pure di giovamento, ma solo quando si è raggiunta una certa maturità umana e spirituale. Il dimorare nel silenzio va coniugato con la stabilità in un certo luogo, che per i padri del deserto è spesso la cella; non mancano però monaci itineranti, che pellegrinano da un posto all’altro, con l’obiettivo di diventare estranei a qualsiasi luogo (xenitèia). Del resto anche la cella non è proprietà del monaco, ma luogo del nascondimento temporaneo, nell’attesa del ritorno glorioso del Signore Gesù. La fuga lo strumento per garantire la solitudine certamente esteriore, ma più ancora interiore, del cuore.  Il secondo aspetto è il silenzio, intriso di umiltà: consiste nel tacere su se stessi, sul proprio egoismo, o superbia, o amor proprio, o giudizio sul prossimo, o di maldicenza. In positivo, è il silenzio di chi, con fede, pone la propria vita completamente nelle mani di Dio, fidandosi di Lui. C’è parsimonia di parole perché la testimonianza va data con le opere prima di tutto. Il terzo aspetto è la pace interiore, che consiste nell’unione con Dio nel profondo del cuore. E’ il frutto dell’ascesi della solitudine e del silenzio, che preparano il cuore a ricevere il dono di Dio. Nel silenzio e nella solitudine del deserto il monaco esicasta si nutre della Parola di Dio, che viene proclamata nella assemblea liturgica domenicale alla quale partecipa, o nelle liturgie più ridotte nella cella, da solo o in piccoli gruppi, o nella lettura personale. La Scrittura viene innanzitutto ascoltata, poi imparata a memoria perché possa essere continuamente meditata (melete), cioè continuamente ripetuta (ruminatio), al fine di interiorizzarla e imprimerla nel cuore. Imbibito il cuore e la mente della Parola, il linguaggio del monaco si fa biblico e si tende a una concordanza sempre maggiore tra parola e vita. E’ la Scrittura lo strumento privilegiato per l’unione con Dio, Parola accolta con fede e nell’umiltà della preghiera. Dice un Padre del deserto:

Un anziano disse: “Quando ti alzi dopo aver dormito, subito, per prima cosa, la tua bocca renda gloria a Dio. Dovrà intonare inni e salmi perché lo spirito continua a macinare per tutto il giorno, come una mola, il primo pensiero cui si è unito fin dall'aurora, sia che si tratti di grano sia che si tratti di zizzania. Per questo devi essere sempre il primo a gettare il grano, prima che il tuo nemico semini la zizzania[2].

Accanto a tutto questo, il combattimento spirituale, innanzitutto contro le passioni dell’uomo vecchio, poi contro i demoni, nella fede certa che è Dio a permettere la tentazione, calibrata sulle forze del monaco. Le vere tentazioni sono i logismoí, aderendo ai quali si cade nel peccato: è il mondo delle illusioni, degli inganni, delle false consolazioni, dell’immaginazione. Il demonio fa leva sulla fragilità della psiche umana, ma restando sempre nel limite della seduzione, mai della costrizione: è sempre l’uomo a decidere liberamente per il bene o per il male. Si legge nei Detti:

Un fratello venne a trovare abba Poimen e gli disse: “Abba, ho molti pensieri che mi mettono in pericolo”. L’anziano lo condusse all’aria aperta e gli disse: “allarga il tuo petto e afferra i venti”. Quello disse: “Non posso!” E l’anziano gli replicò: “Se non puoi fare questo, non puoi neppure impedire ai pensieri di venire; a te appartiene solo il resistervi”[3].

L’esicasta non lotta da solo: nella preghiera si affida a Cristo, che lotta in lui e con lui. Nel contraddittorio che il monaco ingaggia col demonio (antìrrhesis), egli usa come sua prima arma la Scrittura, esattamente come Gesù[4]. Così si legge nei detti dei Padri:

Fu chiesto a un anziano: “È bene attingere alle divine Scritture?”. Rispose: “La pecora dal pastore riceve una buona erba da mangiare, ma essa mangia anche ciò che trova nel deserto. Quando si sente bruciare perché ha mangiato le spine del deserto, allora rumina l'erba, e la sua bocca si raddolcisce e il succo delle spine non si fa più sentire. Così avviene anche per l'uomo: buona cosa è la meditazione delle Scritture contro le insidie dei demoni”[5]

Altri strumenti di lotta sono la vigilanza (nèpsis) e la compunzione (pènthos). Quest’ultimo aspetto ha in sé la tristezza per il paradiso perduto, il ricordo dei propri peccati, il timore per il giudizio di Dio e la preoccupazione per la salvezza dei fratelli. Dalla compunzione nasce la misericordia verso le miserie fisiche e morali degli altri, l’intercessione e la riparazione:

Alcuni anziani si recarono da abba Poimen e gli chiesero: “Se vediamo dei fratelli che sono presi dal sonno durante la preghiera comune, vuoi che li scuotiamo perché rimangano desti durante la veglia?” Egli rispose: “Io, se vedo un fratello vinto dal sonno, metto la sua testa sulle mie ginocchia e lo lascio riposare”[6].

Essa è spesso accompagnata dalle lacrime, diverse a seconda del grado spirituale dell’orante: il “somatico” piange per se stesso e per i propri peccati, lo “psichico” per il timore del giudizio e per la paura di essere privato del paradiso, lo “spirituale” per la commozione per la bellezza di Dio. Anche nella preghiera traspare quanto uno è autocentrato e centrato in Dio. Accanto alle lacrime, il lutto per l’eden perduto e la ricerca della via per tornare nella comunione con Dio. Molto bene sintetizza Brunini:

Il monaco che prega richiama la propria condizione di peccatore e la propria appartenenza ad una umanità peccatrice. Esprime nelle lacrime e nel lutto un ardente desiderio di ritrovare la salvezza perduta. Apre il proprio cuore alla tenerezza di Dio. Si fa intercessore della misericordia del Padre per gli uomini, in particolare per i peccatori, affinché tutti ritrovino la via del ritorno al paradiso, luogo di pace universale e di comunione con Dio: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo[7].

Caratteristica degli esicasti del deserto è la perseveranza, che si forgia nella lotta spirituale, per divenire tutti e solo preghiera vivente e incessante. In altri termini, meta del cammino è lo «stato di preghiera», che consiste in uno stato di stabilità e di pace interiore che permette loro di passare dalla preghiera esplicita a quella implicita come se fosse una soluzione di continuità, un medesimo stato del cuore. Raggiunto questo livello spirituale, allora anche se il monaco è occupato in molteplici faccende esteriori, ugualmente non smette di essere al centro della sua interiorità in continuo colloquio con Dio, che coincide con il ricordo costante di Gesù. Strumento è la ripetizione del Nome di Gesù. Segno di preghiera autentica è il considerarsi come la più piccola delle creature. Molto spesso il monaco che vive nell’hesychíariceve il “carisma dioratico”, che gli permette di discernere e di comprendere, di entrare nella verità delle cose , visibili e invisibili, e di leggere nel cuore dei fratelli. 

Il beato Paolo il Semplice, discepolo di sant’Antonio, raccontò ai padri questo fatto: Un giorno in cui si recò in un monastero per visitarlo e per l’utilità dei fratelli, dopo l’abituale scambio di conversazione entrarono nella santa chiesa di Dio per celebrare la consueta liturgia. Il beato Paolo – così raccontò – osservava tutti quelli che entravano in chiesa, con quale animo veniva-no alla liturgia; gli era stata data infatti da Dio questa grazia, di vedere ciascuno come era nell’anima, come noi ci vediamo l’un l’altro in volto. Tutti quelli che entravano avevano un aspetto luminoso e il volto raggiante, e ognuno aveva il suo angelo che si rallegrava su di lui. Ma uno – disse – lo vide nero e tenebroso in tutto il corpo, e dei demoni lo stringevano ai due lati tirandolo verso di sé da una parte e dall’altra, con una cavezza che gli avevano passato nel naso, e il suo santo angelo seguiva da lontano triste e abbattuto. Paolo, versando lacrime e battendosi il petto con la mano, sedeva davanti alla chiesa e piangeva tanto su colui che gli appariva in quelle condizioni. Ma gli altri, al vedere questo fatto strano, cioè l’improvviso cambiamento di Paolo, mosso alle lacrime e al dolore, lo pregavano di dir loro perché piangesse, temendo che lo facesse per un giudizio su tutti loro. E lo pregavano di entrare con loro alla liturgia. Ma egli, respintili, rimase seduto fuori a lamentarsi fortemente su colui che gli era apparso in quello stato. Dopo non molto, allo sciogliersi della liturgia e all’uscita di tutti, di nuovo Paolo osservò ciascuno, per sapere come uscivano. E vide quell’uomo, che prima aveva tutto il corpo nero e tenebroso, uscire dalla chiesa luminoso in volto e bianco nel corpo, e i demoni lo seguivano da molto lontano, mentre il santo angelo accanto a lui lo accompagnava radioso, entusiasta e molto fe-lice di lui. Allora Paolo, alzatosi con gioia, gridava benedicendo Dio[8].

Anche la preghiera si fa pura, infuocata. Il monaco diventa teologo proprio in virtù della preghiera, indipendentemente dal suo essere dotto o illetterato, perché la sua è una teologia sapienziale: purificato dalla praktikè, entra nella contemplazione angelica, che lo rende intercessore per tutti gli uomini e conosce se stesso nella luce divina. Questa è la sua vera identità, la deificazione. Una prospettiva antropologica cui è legata una spiritualità basata sul battesimo e sull’eucaristia come mezzi di unione a Cristo, in cui si ha la deificazione dell’uomo nella sua interezza, corpo e mente inclusi; questo coerentemente con il mistero dell’Incarnazione di Cristo.

 


[1] L. Montanari (a cura di), Vita e detti dei Padri del deserto, Città Nuova, Roma, 1990, 97.

[2] Detti editi e inediti dei padri del deserto, 20-21.

[3] Ibid., 55.

[4] Mt 4,1-11.

[5] Detti editi e inediti dei padri del deserto, 20.

[6] Ibid., 74.

[7] M. Brunini, La preghiera del cuore nella spiritualità dell’Oriente cristiano, 123.

[8] L. Montanari (a cura di), Vita e detti dei Padri del deserto, 151-152.

FASE SINAITICA

 

Il deserto è la culla del movimento esicasta, ma dal VI secolo il centro della Preghiera del Nome è il monastero fondato da Giustiniano sul monte Sinai. Due sono gli autori che maggiormente si impongono all’attenzione: Giovanni Climaco nei secoli VI-VII ed Esichio il Sinaita nei secoli VIII-X. Vi è in questa fase la ripresa dei medesimi temi spirituali presenti tra i monaci del deserto e viene a definirsi la peculiarità di questa corrente spirituale: il binomio inscindibile tra hesychia e Preghiera del Nome. Legata al primo aspetto è la ricerca di uno spazio concreto di deserto e di solitudine esteriore, per fuggire dalla dissipazione legata alla mondanità. La Preghiera del Nome  invece porta l’attenzione sull’hesychia interiore; il cuore infatti viene messo fortemente alla prova perché cercare unicamente Dio comporta lottare contro il timori, le agitazioni, le preoccupazioni e le afflizioni, in modo da raggiungere la tranquillità profonda. Soltanto il cuore pacificato infatti può aprirsi e rendersi capace di accogliere la luce divina. L’essenza della preghiera esicasta è questa. Un atteggiamento tipico del monaco esicasta sinaita  è l’amèrimnia, cioè la non-cura, il non-affanno o, in termini positivi, la libertà, la confidenza e la fiducia in Dio. E’ il medesimo termine utilizzato in Lc 10,40-42, in Mc 4,19 e in Mt 6,25. Nei Vangeli Gesù invita a non preoccuparsi per i bisogni legati al presente sulla terra; gli esicasti usano questo termine per significare la ricerca della pace profonda che, in ultima analisi, è la pace di Cristo. A livello ascetico ciò implica far convergere tutte le pulsioni interiori verso un unico scopo, che è l’amore e il servizio divino. Si abbandonano le preoccupazioni esteriori e si punta all’unificazione interiore in Dio, non per godere egoisticamente dello stato di tranquillità, ma per dare gloria alla Trinità. Il distacco perciò è non solo dalle cose terrene, ma anche dalle preoccupazioni spirituali, siano esse ragionevoli siano esse irrazionali. Un secondo mezzo, già presente nei Padri del deserto, e molto utilizzato dall’esicasmo sinaita, è la nèpsis, intesa come continua vigilanza contro i logismoí o più semplicemente contro i pensieri inopportuni. Un termine che ricorre sul Sinai per indicare la custodia del cuore è prosochè. La sua finalità è quella di mai interrompere la preghiera interiore e mai perdere la consapevolezza di essere, nel cuore, alla presenza di Dio. Questo aspetto è essenziale per l’esicasta che vive una vita anacoretica e non cenobitica; anche quando è in un Monastero, come appunto sul Sinai, la sua vita è fortemente improntata a solitudine e silenzio perciò il cercare Dio dentro di sé assorbe tutte le sue risorse. Trovare Dio poi non significa entrare in un silenzio mistico, ma sprofondare nell’abisso del proprio cuore e far risuonare la Parola già udita nella liturgia o nella ruminatiopersonale. Molto interessante a questo riguardo è la peculiarità della meditazione esicasta: non si tratta infatti di fermare la propria attenzione su uno specifico episodio della vita di Cristo, perché ciò implicherebbe il formarsi di una immagine esterna a se stesso. Al contrario, sempre l’esicasta è chiamato a ritrovare dentro se stesso la presenza di Gesù, indipendentemente dalla immaginazione, ma in forza della vita sacramentale. In questo modo può giungere a godere della visione luminosa che è autentica teofania taborica, che rivela il corpo di Cristo deificato.  Pochi sono gli scritti mistici dei monaci sinaiti, si utilizzano piuttosto, in traduzione greca, i testi dei Padri del deserto. 

FASE ATHONITA

 

A partire dal XIII e XIV secolo l’esicasmo giunge sul monte Athos. Con gli scritti di Simeone il Nuovo Teologo e Niceforo Solitario la Preghiera del Nome viene agganciata all’utilizzo di tecniche psicofisiche quali la respirazione e il battito del cuore. Vengono anche narrate alcune manifestazioni che possono presentarsi durante la preghiera, che però non hanno alcun contenuto spirituale: sono semplici reazioni psicofisiche. La matrice di queste tecniche non è cristiana, bensì induista, e giunte sull’Athos verosimilmente per il contatto con i sufi dell’Anatolia[1]. Il loro utilizzo all’interno della preghiera cristiana ha provocato non poche reazioni ostili. La più veemente è quella di Barlaam il Calabro che giunge ad accusare questi esicasti di onfaloscopia. Ne segue una forte disputa teologica che, grazie a Gregorio Palamas, non solo affrancherà gli esicasti da questa imputazione, ma porterà a un approfondimento teologico di questa spiritualità[2].

 

[1] La questione è oggetto del terzo paragrafo di questo  primo capitolo.

[2] La questione viene approfondita nel secondo paragrafo di questo primo capitolo.

ESPANSIONE NEI PAESI SLAVI

 

A partire dal XIV secolo, la preghiera esicasta si diffonde al di fuori delle cerchie monastiche, soprattutto grazie a Callisto e Ignazio Xanthopouli, come anche a Nicola Cabasilas. Esce dal monte Athos e si irradia nell’Oriente greco, slavo e moldavo. In Russia mette radici profonde grazie a Sergio di Radonez nel XIV secolo, Nil Sorskij nel XV secolo e agli starets dell’Oltre Volga. Questi ultimi hanno da combattere contro l’istituzionalismo e il ritualismo che attanaglia le gerarchie della Chiesa Russa del XV secolo  e che ha in Iosif Volokolamskij un esponente di spicco. La loro testimonianza evangelica coerente però aggancia la pietà popolare ancora viva, cosicché la spiritualità russa riceve nuovo nutrimento e vigore. Nel XVIII secolo, nel pieno dell’epoca dei Lumi, Piasij Velickovskij la Preghiera di Gesù giunge al suo apice. In Russia assume poi caratteristiche assolutamente particolari rispetto alla tradizione precedente. Come afferma Brunini:

Pur mantenendosi nell’alveo tradizionale, i santi russi, meno interessati alla speculazione teologica contribuirono a umanizzare la mistica bizantina, accentuandone il lirismo cosmico. La preghiera si trasforma così nel sentimento forte e consapevole di un incontro immediato con la presenza di Dio Trinità in tutto ciò che esiste ed è visto. Inoltre l’esicasmo russo porrà in evidenza molto più dei greci le implicazioni sociali del monachesimo eremitico[1].

A Venezia, nel 1782, viene pubblicata la “Filocalia”[2], raccolta di testi ascetici e mistici esicasti. Tale raccolta è opera di Macario di Corinto (1731-1805) e di Nicodimo di Naxos (1748-1809), entrambi monaci athoniti. I testi scelti indicano un chiaro ritorno alla spiritualità dei padri del deserto. Nel secolo XIX viene tradotto sia in rumeno sia in russo e diventa, accanto al Vangelo, il nutrimento primo del popolo cristiano ortodosso. Accanto a questi testi scritti, il fiorire di una vita spirituale rinnovata è legata, in Russia, a Serafino di Sarov (1759-1833), agli starets di Optina, a Teofane il Recluso (1815-1894), a Ignazio Brianconinov (1807-1867), a Ivan di Cronstadt (1829-1908) e al metropolita di Mosca Filarete (1782-1867). Il XIX secolo russo vede anche l’affermarsi di teologi di grande levatura spirituale come Solov’ëv, mentre sull’Athos Silvano imprime nuovo vigore all’esicasmo. 

La stampa dei “Racconti di un pellegrino russo”[3] diffonde la Preghiera di Gesù non solo nel mondo laicale ortodosso, ma oltre i confini bizantino-slavi. Nel rinnovato clima ecumenico che caratterizza la Chiesa cattolica post-conciliare, se l’esicasmo viene conosciuto e diventa patrimonio spirituale anche della Chiesa latina è grazie anche a questo testo, che permette un primo avvicinamento a questo stile di preghiera. Come però scrive Bielawski, 

La lingua in cui si prega e in cui si riceve l’insegnamento è ereditata. Come lo è pure una visione del corpo, del cosmo e di Dio. Inserirsi in questa eredità vuol dire trovarsi nel fiume di una tradizione. Per questa ragione tutti i cultori della preghiera di Gesù, in varie epoche, paesi e culture, sono stati assidui studiosi della tradizione: leggevano e commentavano i testi a loro precedenti, li cercavano, li raccoglievano nelle antologie, li traducevano e commentavano. Questa ricerca di testi, il loro studio, erano e sono atti oranti. La prassi di questa preghiera e lo scriverne al proposito in un modo nuovo e creativo all’interno della tradizione ereditata, è nient’altro che trasmettere la vita della preghiera del cuore alle epoche e alle culture nuove […] La metamorfosi della preghiera di Gesù nasce sempre da una tradizione che va tramandata in modo creativo. La tradizione vuol dire trasmettere la vita che ha la forza di modificare anche le forme ereditate. Questa metamorfosi realizza la trasfigurazione che, come la creazione, è continua. La preghiera di Gesù di cui qui abbiamo parlato è, di questo, testimonianza e promessa[4].

Dall’incontro tra la Preghiera di Gesù e la spiritualità occidentale latina non può che esserci innanzitutto un arricchimento reciproco, ma poi anche una novità creativa, radicata nella più autentica tradizione.      

 


[1] M. Brunini, La preghiera del cuore nella spiritualità dell’Oriente cristiano, 205-206.

[2] Filocalia, Torino, Gribaudi, 1981-1982.

[3] Racconti di un pellegrino russo, Milano, Rusconi, 1977.

[4] M. Bielawski, Strannik. Spiritualità del pellegrino russo, Torrazza Piemonte, Lemma Press, 2020, 228-230.