Il ciclo delle leggende del Graal sorge e si diffonde tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo: siamo verso la fine della lunga epoca medioevale.

Tale denominazione – Medio Evo – fu coniata durante il Rinascimento, per definire il periodo storico compreso tra il III secolo (segnato dalla fine dell’epoca classica) e il XV-XVI secolo (il secolo rinascimentale, appunto). Data la lunghezza temporale del periodo, successivamente, si affermò la distinzione tra “alto” e “basso” medioevo, ponendo l’anno Mille quale termine di demarcazione tra i due periodi.

Facciamo, dunque, una breve disamina dei vari aspetti che caratterizzano quest’epoca, onde comprendere meglio le figure letterarie e i temi che andremo in seguito ad esaminare.

Nel Medioevo la società era organizzata secondo una rigida gerarchia feudale, imperniata sulla religione (vista quale “fondamento morale” del potere temporale).

“La rigidità di questa tripartizione – come ben evidenzia Francesca Persici – era collegata ad una concezione generalmente condivisa da tutti e cioè che era stato Dio stesso a volere una gerarchizzazione di questo tipo, in quanto si riteneva che questa struttura trinitaria corrispondesse alla Trinità di Dio, quindi la società terrena era vista come un riflesso di quella celeste e in quanto tale assumeva un carattere sacrale, per cui immutabile”.

Significativa, nell’esemplificare quanto questa concezione fosse radicata nella mentalità medioevale, è la Carmen ad Robertum Regem, una composizione in esametri scritta dal Vescovo di Laon, Adalberone al Re di Francia. In essa leggiamo: “Così come creati, uguali son tutti gli uomini. / E unica è la casa di Dio, sotto un’unica Legge; / e una sola è la fede. Eppure triplice è l’ordine degli uomini”.

Al vertice di questa tripartizione piramidale stava la classe sacerdotale e religiosa (gli Oratores) che metteva, per così dire, in comunicazione la società umana con Dio.

Seguivano, nella scala sociale, i nobili e gli aristocratici (i Bellatores) che, attraverso l’esercizio delle armi, difendevano e propagandavano la fede. Alla base stava, infine, la vasta categoria del popolo (i Laboratores) che, con il loro lavoro, mantenevano tutta la società.

I cavalieri, dunque, quali appartenenti al ceto agiato e “nobili difensori della fede”, dovevano essere dotati di coraggio, senso dell’onore e fedeltà assoluta verso il feudatario presso il quale prestavano il loro servizio e verso la gerarchia ecclesiastica.

 

 

La nascita della letteratura cortese

 

Nel XI-XII secolo, a queste “doti militari”, con l’avanzare del benessere economico e, di conseguenza, del grado di “civilizzazione”, si aggiunsero, quali requisiti necessari ad un “buon cavaliere”, anche doti squisitamente umane quali la cortesia, la finezza e gentilezza del tratto, la generosità, l’eleganza nell’agire e nel parlare, nonché la galanteria e la liberalità.

Da qui la necessità di fornire al cavaliere anche una cultura che, unita alla fede, indirizzasse e informasse la sua vita sociale.

Sul piano teologico-filosofico, si assiste al fronteggiarsi di due scuole: la Scolastica, che tentava di trovare un punto d’incontro tra conoscenza e fede: “la scienza – come scrive S. Tomaso nella sua Summa Teologica – ha per oggetto la verità, quindi, dopo aver considerato la scienza di Dio, tratteremo della verità”; e quella che, rifacendosi al pensiero di Platone e di S.Agostino e riconoscendo in S. Bonaventura il suo massimo esponente, riteneva la fede un fatto primario e, di conseguenza, sosteneva la necessità di un’ascesi costante anche sul piano conoscitivo onde giungere a Dio: “Ora non resta alla nostra mente – leggiamo nell’Itinerarium mentis in Deum – anche sopra se stessa, e andare al di là, a Dio”.

Il monachesimo, nel frattempo, andava sviluppandosi e diffondendosi grazie soprattutto a S. Benedetto che, nella sua regola basata sull’Ora et Labora, proponeva “una nuova società di cristiani, non più divisi – scrive Francesca Persici – da lotte di potere e scismi, ma uniti nella preghiera e nel lavoro, come elementi che avrebbero potuto rendere più vicini gli uomini in una società rigidamente classista”.

Con S. Francesco, prima, e con Jacopone da Todi, poi, sorse e si sviluppò anche in Italia la letteratura religiosa in volgare che, anche se non poteva ancora essere ritenuta un vero e proprio genere letterario, si esprimeva in varie forme: inni, laudi, prediche, agiografie … In quest’ottica, Francesco era visto come il cavaliere di Dio, cavaliere “mistico”, la cui dama era Madonna Povertà e i cui compagni erano i nuovi paladini della fede e della carità. I suoi canti esaltavano l’amore per Dio e per la natura vista e vissuta come creatura di Dio.

Quelli di Jacopone, invece – scrive il De Sanctis – “sono i canti di un Santo, animato dal divino amore. … Non cura arte e non cerca pregio di lingua. … Una cosa vuole: dar sfogo ad un’anima traboccante d’affetto, esaltata dal sentimento religioso”. In lui la passione della fede, cresce, erompe, straripa e i suoi componimenti lo esprimono con espressioni che rasentano il “fanatismo ascetico” e la follia. Egli è “folle di Dio” che non risparmia nessuno. “Non trovo che ricordi – scrive, ad esempio, in una sua requisitoria contro Papa Bonifacio VIII – Papa nullo passato / che in tanta vanagloria / si sia delectato”. Ma egli sa anche essere delicato e dolcissimo, come nella preghiera che rivolge alla Vergine dicendo: “Ricevi, donna, nel tuo grembo bello le mie lacrime amare. Tu sai che ti son prossimo e fratello, e tu nol puoi negare”.

È in questo clima culturale che nacquero i poemi cavallereschi, i quali, possono grossomodo, essere suddivisi in due cicli maggiori: quello carolingio (che narrava ed esaltava le vicende di Carlo Magno e dei suoi paladini), nato e sviluppatosi nel nord della Francia e che appartiene al genere delle “chansones de geste”, in cui i valori celebrati sono quelli della cavalleria: nobiltà, coraggio, forza fisica, fedeltà fino alla morte; ed il ciclo arturiano (che narra e tramanda le imprese di Re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda) sorto in Bretagna ed appartenente al genere del romanzo cortese, imperniato, cioè, più che sulle gesta collettive compiute dai cavalieri (com’era nel ciclo carolingio), sulle vicende e le imprese personali dei singoli cavalieri arturiani.

Le vicende “fantastiche”, ambientate in luoghi “leggendari”, popolati da esseri immaginari e/o magici, fanno parte integrante del gusto dell’epoca.

Ciò è dovuto anche al connubio avvenuto tra l’ideale cavalleresco e l’ideale religioso, nonché all’aprirsi, grazie alle crociate e al conseguente contatto con i popoli del lontano oriente, di nuovi orizzonti, pieni di meraviglie nuove, di splendori fantastici, e di leggende arcane oltre che di usi e costume diversissimi ed esotici.

“Tutto prende un colorito fantastico; – scrive Batoli – Gli uomini dell’antichità come i contemporanei, se appena si sollevino dal livello comune, hanno subito la loro leggenda, la loro storia poetica, che la tradizione ingrandisce, abbellisce, trasforma e dove si abbracciano fraternamente gli anacronismi più grossolani e le più strane invenzioni”.

Questa tendenza al meraviglioso non era comunque fine a sé stessa. Essa va congiunta – cosa importante e da tener presente nel considerare la letteratura medioevale – al frequente uso dell’allegoria.

Lo scopo di tutto questo era quello di esprimere, poeticamente, tramite un’immagine carica di un valore simbolico e allusivo, una realtà più profonda, generalmente spirituale, a scopo moraleggiante ed educativo.

 

 

Il ciclo arturiano

 

I racconti legati alle vicende di Artù e dei suoi cavalieri, sono ambientate nella fantomatica isola di Avalon, isola perennemente avvolta dalle nebbie che la nascondono e la rendono inaccessibile a chiunque (a meno che gli stessi abitanti di Avalon, non decidano di permetterne l’accesso tramite un’imbarcazione “magica” che, a seconda della leggenda seguita, o naviga “da sé” senza rematori o è condotta da esseri sovrumani).

In essa dimorano, tra gli altri, tre personaggi che risultano centrali nel ciclo arturiano: Viviana, la dama del lago che custodisce la spada Excalibur; Merlino, il mago che aveva donato la spada a Uther, il padre di Artù e che diviene, prima “tutore” (in quanto veglia su di lui e lo protegge tramite i suoi poteri magici) e poi consigliere di Artù, e la fata Morgana, sorellastra di Artù.

L’isola di Avalon fu spesso identificata con il mondo ultraterreno, sebbene fin dal XII secolo vi fu variamente identificata con Glanstonbury in Someset (una località che, essendo situata tra terreni acquitrinosi, era spesso avvolta da nebbie e foschie), con Tintagel o con Bardsey oppure con Holy Island.

 

 

 Re Artù

 

Ma chi era Re Artù? Le ipotesi formulate a tale proposito sono varie. C’è chi lo ritiene un personaggio leggendario, chi una divinità celtica simbolo della terra stessa (Art = roccia, da cui deriva Earth) e chi, invece, un personaggio realmente esistito nel VI secolo.

La stessa tradizione medioevale ce lo presenta come un valoroso condottiero, re dei Britanni, che sconfisse i Sassoni e istituì i cavalieri della Tavola Rotonda.

Comunque sia, realmente esistito o meno, Artù diviene, nel XI secolo, “un mito”. Ritenuto un eroe nazionale inglese, la sua storia, tramandata dalle canzoni dei Bardi, era diffusa non solo in Gran Bretagna ma anche in Irlanda, Francia ed Italia (ne è una prova il bassorilievo del 1120, presente nella “porta della Peschiera” del Duomo di Modena), C’è da notare, però, che il Re Artù presentato dalla tradizione celtica-britannica, era una figura piuttosto rozza: un re “barbaro”, forte e coraggioso ma anche “incivile ed incolto” (se “misurato” sia secondo le categorie odierne sia secondo il raffinato ideale cavalleresco del medioevo europeo).

A far – ci si passi l’espressione – “l’opera di maquillage” necessaria a far sì che il “barbaro Artù” divenisse il “nobile Artù” della corte di Camelot, fu Geoffrey di Monmouth il quale non solo tramutò Artù nell’ideale del re cristiano e fece dei suoi cavalieri il modello perfetto di come doveva essere ogni cavaliere medioevale, ma rivisitò in chiave cristiana anche alcuni personaggi celtici tra i quali Merlino.

 

 

 Merlino

 

La figura di Merlino è, con tutta probabilità una realtà storica. Possiamo infatti identificare Merlino con un bardo gallese, di nome Myrddyn, vissuto attorno al V-VI secolo ed esperto di testi profetici.

Geoffrey, che nella sua opera ne interpretò la vita in chiave cristiana, riteneva che i poteri magici di Merlino derivassero nientemeno che da Satana stesso.

Secondo la leggenda da lui presentata, infatti, il demonio decide di inviare sulla terra un essere “diabolico”, quasi una sorta di “anticristo” che diffondesse nel mondo il male, e a tale fine possiede, in sogno, una fanciulla. La ragazza, però, destatasi, impressionata dall’incubo avuto, racconta tutto l’accaduto al confessore, il quale traccia su di lei il segno della Croce. Il bimbo nasce ed è fisicamente grosso ed irsuto come un demone ma – cosa importante – è interiormente libero da ogni desiderio di male. Inoltre, se da una parte ha ereditato dal demonio la capacità di conoscere il passato, dall’altra nascendo sotto la benedizione divina, ha ricevuto in dono da Dio anche la capacità di prevedere il futuro, capacità questa, di cui Merlino si servirà “a fin di bene” nell’individuare in Artù il predestinato e nell’indirizzarlo verso la ricerca del Graal.

Questo fatto, cioè che il piccolo Merlino, per il “semplice fatto” di essere stato “benedetto da Dio fin dal grembo materno”, nasca con le caratteristiche fisiche del padre ma interiormente simile alla madre, ovvero libero da ogni “tendenza al male”, risulta significativo in quanto dimostra come Dio sappia volgere al bene anche il male peggiore quando ci si affida a Lui.

Nei testi medioevali, Merlino compare sia come consigliere di Vortirgen, re del Galles nella seconda metà del V secolo, sia (circa 100 anni dopo!) come consigliere e compagno d’armi del re Gwenddolau nella battaglia di Arfderydd del 575. Da qui il parere di molti studiosi di ritenere i due Myrddyn, citati dai testi medioevali, due personaggi diversi.

Quale dei due Myrddyn è il “nostro Merlino?” Probabilmente il primo.

Infatti, sempre secondo la leggenda tramandataci da Geoffrey, fu il Merlino consigliere prima di Vortinger e poi di Re Uther Pendragon che aiutò quest’ultimo a conquistare la bella moglie del duca di Tintagel (Poiché essa non corrispondeva alle di lui attenzioni, Merlino, attraverso i suoi poteri magici, fa sì che il re assuma le sembianza del duca).

È tramite questo ingannevole scambio di persone che viene concepito Artù, il sovrano destinato a porsi alla ricerca del Santo Graal.

Merlino prenderà il piccolo Artù sotto la sua tutela e protezione, lo guiderà e lo aiuterà ad estrarre la mitica Excalibur dalla roccia – facendolo così riconoscere come il legittimo sovrano designato a riunire e governare l’Inghilterra – e gli rivelerà, infine, la missione, a lui destinata: ricercare il Sacro Graal .

 

 

La leggenda del Graal nel ciclo di Re Artù

 

Secondo la leggenda arturiana, il S. Graal giunse in Inghilterra portato da Giuseppe d’Arimatea. Egli, dopo la crocifissione di Cristo, in seguito a varie prove e sofferenze inflittegli dagli ebrei a causa della sua fede in Gesù, era partito, quasi “novello Abramo” – sapendo di lasciare definitivamente Gerusalemme – e, guidato dal Signore, si era imbarcato, con tutta la sua famiglia alla volta di una terra non ben identificata, che si rivelò poi essere l’Inghilterra.

Qui giunto, il Graal viene affidato da Giuseppe a suo cognato (il cui nome, a seconda delle versioni, è Hebron o Bron) denominato il “Ricco Pescatore” oppure il “Re Pescatore” e dopo di lui alla sua discendenza.

La figura del Re pescatore sarà centrale in tutte le leggende del Graal, tanto che Ogni custode del Graal sarà designato con il titolo di “Re Pescatore”.

Con il passare dei secoli, però, si perdono “le tracce” sia del luogo dov’è posto il castello del Re Pescatore, sia del Graal.

Questo avviene, oltre che per la progressiva corruzione dell’umanità, anche in seguito al “Colpo Doloroso”, una ferita da cui il Re Pescatore viene colpito, dalla la stessa lancia di Longino che trafisse il costato di Cristo, nelle gambe o nei genitali (a seconda della leggenda) a causa di un peccato (generalmente si ritiene di lussuria) da lui commesso.

Infatti, la possibile l’etimologia della definizione di “Re pescatore”, usata per designare i custodi del Graal, viene fatta risalire, oltre che alla simbologia cristiana (secondo la quale il pesce è simbolo di Cristo e gli Apostoli sono definiti “pescatori di uomini”) e alla mitologia celtica (per la quale la saggezza è simboleggiata dal Salmone), anche all’assonanza fonetica esistente in francese tra i termini pescatore (pêcheur) e peccatore (pécheur).

In conseguenza a ciò, sulla terra governata dal Re Pescatore, si abbatte la Wasteland, una “maledizione” che causa una situazione di carestia e desolazione, sia fisica che morale su tutto il regno.

Merlino rivela ad Artù che l’unico modo per porre fine a questo stato di miseria materiale e spirituale che opprime il regno, è giungere a ritrovare il Graal.

A tal fine molti cavalieri della Tavola Rotonda partono alla sua ricerca ma solo pochi, tre per l’esattezza, riescono a raggiungere il Santo Graal, poiché il suo ritrovamento, oltre che magnanimità d’animo, coraggio e provate virtù cavalleresche, richiede, soprattutto, integrità morale e massima purezza interiore. Solo Parsival Galahad e Bors giungeranno a tanto. 

Altri due cavalieri – Lancillotto e Gawain – vi giungeranno vicino ma ne saranno esclusi a causa del peccato (di adulterio il primo, di “presunzione” il secondo) di cui erano colpevoli.

Infine, nel considerare il ciclo di Artù e tutta la letteratura del periodo medioevale in genere, non dobbiamo dimenticare, come già detto, che, per i medioevali, la fede, lungi dall’essere “un fatto privato”, era il substrato sociale e culturale, l’humus, per così dire, sul quale cresceva e si edificava tutta la vita quotidiana sia civile che personale.

Gli uomini di cultura del Medioevo, se da una parte esaltavano le virtù dell’intelletto umano, dall’altra legavano inscindibilmente tali capacità della ragione ad una profonda fede in Dio, considerato fonte di ogni bene materiale e spirituale e punto di riferimento per ogni azione umana e, di conseguenza, anche speculazione e produzione intellettuale.

Da ciò segue, quale naturale conseguenza, che i valori religiosi erano alla base di ogni forma culturale e quindi, come abbiamo visto, impregnavano di un’aurea cristiana, anche ogni opera umana e, quindi, anche ogni produzione letteraria.

 

 

 

Parallelismo con la nostra Epoca

 

Oltre a tutto quanto detto sopra, dobbiamo rilevare come, l’epoca medioevale, presenti notevoli aspetti che, sotto un certo punto di vista, hanno notevoli affinità con la nostra epoca. 

“Il Medio evo – scrive Claudio Attardi – fu infatti un epoca di forti passioni, di incontri e scontri tra storie, culture e religioni diverse. Incontro e scontro tra il mondo latino e quello germanico, tra quello europeo cristiano e quello arabo – turco – islamico, tra società nomadiche e società stanziali. 

I medievali quindi sperimentarono forme politiche, economiche ed intellettuali per attuare una nuova sintesi, nata dalla divisione del Mar Mediterraneo tra nord cristiano e sud musulmano, tra occidente latino ed oriente greco slavo, tra popolazioni nordiche e popolazioni mediterranee, divisioni e tensioni che sussistono ancor oggi. Anche a livello spirituale, l'espansione del monachesimo benedettino e la nascita degli ordini mendicanti, francescani e domenicani, lasciano segni ancora evidenti nello sviluppo di monasteri e cattedrali, del romanico e del gotico, mentre centinaia di pellegrini si muovevano tra l'Occidente e l'Oriente, per terra e per mare, determinando la nascita di vie di comunicazione ed istituzioni di ospitalità e cura. Gli intellettuali medievali si confrontarono, sulla scia delle differenze religiose tra latini e greci, cristiani ed islamici, in un grandioso sviluppo intellettuale che sfociò nella nascita delle

università. Ultimo, ma non meno importante lo sviluppo dei castelli rurali e dei comuni cittadini, invenzione tipica dell'Italia medievale. Perciò oggi si dice che l'età medievale fu soprattutto un'epoca di grandi sperimentazioni. Forse è per questo che il Medioevo non è poi così lontano da noi. Anche noi infatti stiamo sperimentando nuove tecniche, nuovi modi di vivere e di comunicare, un nuovo pluralismo di popoli, razze, religioni”.

Un altro aspetto che accomuna e, nello steso tempo, differenzia il medioevo dalla nostra epoca, è la diffusa sete di “spiritualità” che vi si riscontra.

L’uomo medioevale viveva con lo sguardo costantemente rivolto al divino. Allo stesso modo l’uomo contemporaneo è alla perenne ricerca di un contatto con il trascendente.

Mentre, però, per la società medioevale, questa tensione interiore si esplicava rigorosamente nella fede in Dio e nell’adesione alla Sua Chiesa, oggigiorno, questa aspirazione insopprimibile dell’animo umano, viene soddisfatta attraverso i mezzi più disparati: dall’adesione sincera alla fede all’occultismo, passando per la new-age e le varie sette pseudo-misticheggianti … tutto va bene e tutto viene mescolato in una panacea

indistinta.

Detto questo risulta chiaro come non sia un’idea poi così “peregrina” paragonare i cavalieri medioevali, postisi alla ricerca del S.Graal, con i più moderni “cavalieri del Graal”, che possiamo identificare nei vari autori letterari che, di volta in volta, prenderemo in considerazione.

Compiamo ora un passo ulteriore nel nostro cammino di ricerca e prendiamo in considerazione il Graal stesso.

Nell’accingerci a ciò, la prima domanda che immediatamente sorge spontanea è: cos’è il Sacro Graal? Possiamo poi anche chiederci il perché il Graal si chiami proprio “Graal” e da dove deriva il termine. Infine ci chiediamo perché accingerci a tanto: vale la pena affrontare un cammino che non si rivelerà certo privo di “rischi e pericoli” per giungere a contemplare il Santo Graal?

Sono queste domande legittime, anzi quasi doverose, visto che quando ci si accinge a ricercare qualcosa, la prima cosa necessaria è sapere cosa si cerca nonché il perché la si ricerchi.

 

 

 

Il Santo Graal: storia ed etimologia di un termine

 

Partiamo dall’etimologia. 

A tale riguardo, riportiamo una parte, a nostro giudizio particolarmente esplicativa, di un interessante studio di Marina Montesano.

“La parola graaus (al nominativo; nei complementi, graal) – scrive la studiosa – è attestata in lingua d’oìl almeno a partire dal Roman d’Alexandre del 1160-70; in mediolatino, invece, il termine gradalis, corrispondente a graaus, è contenuto in un testamento franco-catalano redatto per il conte Ermengaud d'Urge nel 1010. Nella Cronica di Elinando di Froidmont, Gradalis designa il piatto o la scodella in cui Cristo consumò l'Ultima cena e in cui fu raccolto il suo sangue. Nell'area di Troyes la parola graal esisteva da tempo come nome comune per indicare un piatto o una scodella. Ma anche altre regioni della Francia conoscevano varianti del termine col medesimo significato: nel sud ovest usava gradale; nel Massiccio Centrale gresal - gresol; nella Svizzera romanza, gral. Grial verso l'Alta Vienne e la Saone-sur-Loire; nello Jura giro/gro/gra/gre nella Costa d’Oro, gro / grolot / grolotte; nell'Alta Marna, greil; nel Basso Reno, gren / grau nella Mosella; la variante provenzale occitana grazal o grasol s’incontra almeno dalla metà del XII secolo e sopravvive in varia forma nei dialetti neolatini odierni: si pensi al savoiardo grolla. Anche il catalano e il castigliano antico, nella penisola iberica, conoscevano le forme gradal-greala e grial.” [ … ]. Chrétien (il primo scrittore che, nel ’200, nel suo Perceval pone a tema la ricerca del Graal, diffondendone così la leggenda) descrive il graal come un piatto largo e capiente abbastanza da contenere un grosso pesce, mentre un testo degli inizi Duecento, la prima continuazione anonima del Perceval, ne parla come di un recipiente tanto profondo da contenere una testa di cinghiale. Tali descrizioni sembrano alludere a un oggetto d'uso corrente; probabilmente, infatti, la parola gradalis e i suoi corrispettivi nelle lingue volgari altro non sono che la sintesi di due parole latine: crater (il panciuto vaso vinario) e vas garale, il recipiente per la

conservazione della salsa detta garum. Meno probabili altre ipotesi etimologiche, come quella che, appoggiandosi al valore che il termine ha assunto dopo Chrétien come oggetto dispensatore di grazia e di saggezza, vorrebbe avvicinarlo a gradale o graduale in lingua d'oil graél, termini derivati da gradus (“passo”) e designanti la lettura liturgica che nella Messa precedeva il Vangelo e, in senso più ampio, il libro dei canti liturgici. Ancora meno affidabile la proposta che vorrebbe far derivare l'espressione saint graal da sang real con riferimento al sangue del Cristo (o, secondo una leggenda molto fantasiosa, della dinastia franco-merovingia che da lui deriverebbe attraverso Maria Maddalena)”.

Degno di nota è, infine, anche il fatto che, il termine “grazal o grasol” (variante provenzale del termine graal), “s’incontra almeno dalla metà del XII secolo e sopravvive, a tutt’oggi, sebbene in forme varianti, nei dialetti neolatini odierni: si pensi al savoiardo “grolla”, termine tutt’ora in uso nella Valle d’Aosta per indicare una particolare tazza in legno tipica di quella regione.

 

 

Il Santo Graal: che cos’è?

 

Passiamo, ora, a tentare di precisare “cos’è il Graal”.

Nella letteratura, il Graal appare per la prima volta nel Perceval di Chretien. Sebbene sia presente una “vaga” allusione al calice e alla patena eucaristica, nella narrazione che Chretien fa dell’incontro di Percival con un eremita (che poi si rivelerà essere suo zio e lo indirizzerà sulla retta via), il Graal è presentato più con i connotati del “contenitore magico”, oggetto presente in varie culture antiche e simbolo della “Grande Madre Terra” e, quindi, della fecondità e dell’abbondanza (basti ricordare la Cornucopia della cultura greca e romana, apportatrice di felicità e prosperità o il “Calderone di Dagda”, portato nel mondo, secondo la mitologia celtica, da esseri ultraterreni denominati Tuatha De Danaan), che come “reliquia”. Una “prova” di ciò può essere letta nel fatto che Chretien usi l’espressione “un graal” anziché, ad esempio, “il Graal”. L’uso dell’articolo indeterminato, nonché la lettera minuscola usata per scrivere il termine “graal”, può portare con sufficiente margine di ragione, che la narrazione di Chretien risenta ancora “pesantemente” delle influenze e delle leggende “pagane” riguardanti i contenitori magici dispensatori di abbondanza, conoscenza e lunga vita terrena.

L’identificazione specifica del Graal come “reliquia cristica” avverrà solo più tardi, nel XIII sec., quando Robert de Boron scriverà “Il Roman de l’Estoire du Graal”, presentando il Graal come la coppa usata da Gesù durante l’Ultima Cena e che Giuseppe d'Arimatea, avrebbe poi usato per raccogliervi il sangue sgorgato dalla ferita al costato di Cristo Crocifisso (in questo caso il nome Graal viene fatto derivare dal latino medievale cratella).

Questa associazione del Graal al sacro Calice usato da Cristo per l’istituzione dell’Eucaristia, incontrò subito il favore (e di conseguenza “l’appoggio”) della teologia eucaristica dell’epoca, la quale, impegnata com’era nella lotta contro l’eresia catara (che negava la realtà dell’incarnazione), vide molto favorevolmente l’affermarsi e il diffondersi di tale identificazione che non solo eliminava ogni residuo “pagano” ma contrastava anche le tesi catare.

Inoltre, dobbiamo tener presente anche che, il calice eucaristico, era già presentato come reliquia e, come tale venerato, anche nella religiosità dei secoli precedenti: lo troviamo menzionato, ad esempio, nei resoconti dei pellegrini medievali (che ne sostengono la presenza nella chiesa dell’Anàstasis a Gerusalemme), nella testimonianza del Vescovo Arculfo che asserisce di averlo visto nel viaggio da lui compiuto in Palestina nel 640 e in Beda il Venerabile.

Il Graal venne identificato anche con il cosiddetto “Catino di Cesarea” un piatto esagonale, smeraldino, con due manici ai lati, proveniente dalla Palestina e portato a Genova dai marinai genovesi che nel 1101 conquistarono Cesarea. Esso è conservato, ancor oggi, nella Cattedrale. “Ad attribuirgli esplicitamente il valore di reliquia cristologia – scrive Marina Montesano – “sarà il vescovo lacopo da Varagine (1230-1298), autore della Legenda aurea Nella sua Chronica della città di Genova sostiene che la forma di ciotola e la denominazione “catino”, che ricorda il termine usato nel Vangelo di Marco (unus ex duodecem qui intinguit mecum in catino..., «uno dei dodici, colui che intinge con me nel catino...»), consentirebbero di identificarlo con il recipiente utilizzato da Cristo per consumare l'agnello pasquale”.

Secondo un’altra tradizione, che ebbe origine in Spagna nel 1238 quando i crociati riconquistarono Valencia, è il Santo Calice conservato nella Cattedrale di tale città e costituito da una pietra di calcedonio montata in oro, ad essere identificato con il calice dell’Ultima Cena.

Sia il Calice di Valencia che il Catino di Genova, possono essere considerati “l’anello di congiunzione” che unisce il Graal presentato da Chretien con il Graal presentato da Wolfram von Eschenbach” nel Parzeval, secondo il quale il Graal sarebbe “una pietra del genere più puro (...) chiamata lapis exillis”.

Infatti, spiega Marina Montesano, “il sia pur solo preteso smeraldo di Genova e il calcedonio di Valencia rimandano alla tradizione che vorrebbe il recipiente dell'Ultima Cena ricavato da un'unica pietra. Un lapis unicus, una “pietra angolare” che è allusione al Cristo ma che è parimenti associata alla pietra del sacrificio del Monte Moria, a sua volta figura, nell'esegesi biblica, del Calvario. Nel mondo germanico il lapis unicum è simbolicamente associato alla gemma detta der Waise (“l’Orfana”, quindi “l’Unica”), ma anche der Weise la “Sapiente”), posta in cuspide alla placca frontale della corona imperiale degli Ottoni, proveniente da Aquisgrana e oggi nella Schatzkammer di Vienna.

Non è da dimenticare, poi, che l’espressione “Lapis exiliis” è spesso stata intesa come “lapis ex coelis” (e perciò tradotta come “pietra caduta dal cielo”), in quanto Wolfram stesso, presenta la pietra costituente il Graal, come lo smeraldo che ornava la fronte di Lucifero e che egli avrebbe perso quando si ribellò a Dio. Tale pietra, caduta dalla fronte di Lucifero, sarebbe poi stata recuperata e portata sulla terra da quegli angeli che, durante l’insurrezione, erano restati neutrali.

Tale definizione del Graal come lo smeraldo che ornava la fronte di Lucifero prima della sua ribellione a Dio, trova un suo, per così dire, “parallelo” nella tradizione induista dove l’urna presente nella fronte di Shiva, rappresenta il “Terzo occhio”, l’organo che origina la visione interiore.

Ma forse, per noi, risulta più interessante, nonché maggiormente pertinente al nostro tema, il fatto che, secondo la Qabbalah ebraica, il termine “Pietra dell’esilio” indica lo Shekinah, cioè la presenza di Dio sulla terra.

Secondo Grahan Honcock, infine, il Graal altro non sarebbe che la stessa Arca dell’Alleanza, trafugata dal Tempio di Gerusalemme (tra il X° e il VI° sec. a.C.) e di cui si persero le tracce senza che nei testi biblici vi sia alcun riferimento a tale sparizione (infatti, come rileva Honcock riportando un testo di Richard Elliot Friedman, docente di religione ebraica e comparata all'Università della California, “Non vi è alcun cenno al fatto che l’Arca fu portata via, o distrutta, o nascosta. 

Non vi è neanche un commento del tipo: «E quindi l’Arca sparì e non sappiamo che cosa sia avvenuto», o: «E nessuno sa dove essa sia oggi». L’oggetto più importante del mondo, dal punto di vista biblico, è semplicemente scomparso dalla storia”).

Secondo la tesi presentata da Honcock, l’Arca dell’Alleanza, dopo essere stata sottratta dal Tempio, fu segretamente trasportata in Etiopia e lì gelosamente nascosta e custodita fino ai giorni nostri.

Questo studioso parte da diverse ricerche storiche che attestano un indiscutibile connessione tra il Graal e i Templari e tiene come testi “guida” e, per così dire, “termini di confronto”, il Kebra Nagast, (testo etiope del XIII sec., oggetto di grande venerazione e che narra la leggenda dell’amore tra Salomone e la regina di Saba e dell’Arca dell’Alleanza) ed il Parzival di Wolfram (il quale autore – non è da scordare – era egli stesso un templare e, a detta di Honcock, anche uno dei pochi che, essendo giunto ai vertici dell’Ordine, era a conoscenza anche di alcuni “segreti” che venivano gelosamente custoditi e tramandati solo “ai massimi livelli”).

Nel suo studio Honcock, inoltre, pone in parallelo il Graal, l’Arca dell’Alleanza e la Vergine Maria, poggiandosi sul fatto che, fin dal IV secolo Sant'Ambrogio, vescovo di Milano, aveva affermato in un suo sermone che l'Arca era stata un'allegoria profetica di Maria: “proprio come l'Arca aveva racchiuso in sé la Vecchia Legge nella forma dei Dieci Comandamenti, così Maria aveva tenuto in sé la Nuova Legge nella forma del corpo di Cristo”.

In conformità a questo, grossomodo ai tempi di S. Bernardo, si giunse, poi, anche a porre “in inni, sermoni ed epistole, una sorta di parallelismo simbolico tra il Graal e la Beata Vergine Maria . … Questa pia allegoria si fondava sul seguente ragionamento: il Graal (secondo la Queste e altre versioni posteriori della leggenda) conteneva il sangue santo di Cristo; prima di metterlo al mondo, Maria aveva tenuto Cristo stesso nel suo grembo perciò, il Graal era – ed era sempre stato – un simbolo che rappresentava Maria. Seguendo questa logica, Maria Theotokos, la «Portatrice di Dio», era il vaso sacro che aveva contenuto in sé lo Spirito fattosi carne. Perciò, nella litania di Loretto del XVI secolo, essa era definita vas spirituali (vaso spirituale), vas honorabilis (vaso d'onore) e vas insigne devotionis (vaso illustre di devozione)”.

Inoltre, continua l’autore, “la litania di Loretto si era anche riferita alla Beata Vergine come Arca Foederis che era la tradizione latina per Arca dell'Alleanza”.

 

 

Mito arcaico del Graal

 

Il mito del Graal, inteso quale “oggetto dotato di poteri divini”, fonda le sue radici nell’antichità del tempi. Secondo alcuni studiosi, “Questo mito sembra fondersi con la stessa storia della specie umana. … Il mito si riferisce ad un importante evento che ha segnato le origini dell'uomo. L'interpretazione del suo acronimo: Gnosis – Recepita – Ab – Antiqua – Luce, rivela l'importanza e la caratteristica arcaica che è stata in grado di suggestionare generazioni di ricercatori dell'invisibile”.

Secondo tale interpretazione il Graal altro non sarebbe che un oggetto di origine divina, caduto sulla terra e ivi consegnato, da creature semi divine, agli uomini affinché se ne avvantaggiassero traendone conoscenza e prosperità.

Tra i miti più antichi, quello druidico narra di un semidio caduto sulla terra. Nella caduta lo smeraldo che ornava la sua fronte cadde e fu raccolto da altri semidei che lo consegnarono ad Adamo dopo averlo forgiato in forma di coppa, affinché ne usufruisse e lo custodisse. Quando dopo il peccato Adamo fu scacciato dal paradiso terrestre, portò la coppa con sé. Alla sua morte, la coppa passò via via ai suoi discendenti i quali, però, ad un certo punto, non seppero più custodirla e la coppa andò così perduta (e con essa anche la preziosa fonte di sapere che essa costituiva).

Infine, nel Medioevo, il mitico re Artù, su consiglio del druido Merlino, avrebbe deciso di riunire attorno a sé dodici cavalieri tra i più valorosi, affinché si mettessero alla ricerca del Graal e così poter, una volta ritrovatolo, ripristinare la condizione paradisiaca dell’Eden sulla terra. Non tutti i cavalieri, però si rivelarono all’altezza del compito e solo alcuni di essi giunsero a poter contemplare il sacro Graal.

Non è difficile ravvisare, in tale descrizione, molteplici analogie con il mito di Fetonte presentato da Ovidio nelle Metamorfosi. In Esso si narra la vicenda di Fetonte, il famoso figlio del sole che, salito sul carro del padre deciso a condurlo, si rivela incapace di governarlo e precipita, così, con esso, verso la terra. Il sommo Giove, onde evitare che la terra venga completamente arsa dal calore del sole, scaglia un fulmine su Fetonte facendolo cadere dal carro del sole e facendolo precipitare sulla terra nel fiume Eridano (l’antico nome con cui veniva denominato il Po).

È da notare che il mito di Fetonte e presente anche nella tradizione druidica. Unica variante: in essa Fetonte anziché nel Po, sarebbe precipitato all’incontro del Po con la Dora, nella valle di Susa dove, molti secoli più tardi, fu costruita Rama, la mastodontica città druidica che si estendeva lungo quasi tutta la Valle.

Attualmente la quasi totalità di coloro che si dedicano allo studio del Graal, concorda nel ravvisarvi, sotto il profilo storico-fillogico, numerosi riferimenti, espliciti o impliciti, al mondo mitologico celtico.

La stessa Tavola Rotonda di Re Artù, ad esempio, “Secondo i fautori più estremi dell'origine celtica del mito – fa notare Marina Montesano – ricalcherebbe la tavola celtica dei festini e ad essa se ne legherebbe una parallela nell'aldilà governata da un re prodigo nel cui castello un calderone magico garantirebbe universalmente l'abbondanza”; Inoltre, prosegue la studiosa, “Le avventure nell'altro mondo alla ricerca d’oggetti magici (pietre, talismani, coppe, armi) è alla base di molti racconti irlandesi e gallesi”.

 

 

 Il Santo Graal: allegoria di una realtà profonda

 

Ma se vogliamo porci “correttamente” alla ricerca del Graal e se non vogliamo, come si suol dire, “mancare il bersaglio” della nostra ricerca, è necessario, innanzitutto, che teniamo come “punto fermo”, quale “punto di partenza essenziale”, che, come ben evidenzia Franco Cardini, “Del Santo Graal, si va alla “cerca”: “queste” come si diceva in francese medioevale”. Porsi alla ricerca del Sacro Graal, significa “mendicare” qualcosa che, di per sé, non “ci è dovuto”: il suo ritrovamento non è frutto, cioè, dei vari sforzi umani – per quanto “eroici” essi possano anche essere – ma è “premio” concesso “dall’alto” a colui che, dopo aver, con umiltà (è questa la condizione base per porsi “in ricerca”) e totale disponibilità d’animo, accettato di intraprendere una progressiva purificazione interiore, persevera in questo costante sforzo di “metanoia” fino a giungere alla “purificazione del cuore e dello sguardo”, alla “semplicità” evangelica dei “piccoli” che, diffidando di sé, si affidano totalmente a Dio, in Lui confidano e da Lui tutto si attendono ed accettano.

Riuscire a raggiungere il Graal, perciò, è un “dono”, ricevuto “gratuitamente” e per nulla “dovuto”.

Inoltre, dobbiamo focalizzare bene anche il fine cui deve condurci la ricerca del Graal.

La ricerca del Sacro Graal, infatti, più e prima ancora che una ricerca “esteriore” (di un oggetto, per quanto “sacro” esso possa essere), è innanzitutto una ricerca interiore, un cammino di purificazione interiore, un’ascesi che si dispiega lungo tutta la propria esistenza e che plasma ed informa tutta la vita.

Il porsi alla ricerca del Sacro Graal significa, dunque, intraprendere un cammino alla ricerca di quel “quid” che da senso a tutta la vita. Posta questa “premessa”, sotto quale forma “si presenti il Graal”, diventa secondario.

Come spiega Franco Corsi “Ognuno ha il suo Graal, diverso per forma, natura e significato. …. E ognuno di noi potrà, ogni giorno, ritrovare il Graal: non quello di legno o coccio, ma qualcosa di enormemente più grande”: come dicevamo prima, il “quid” che dà senso alla sua vita, la “stella polare” che orienta il cammino dell’esistenza terrena.

Significativa, riguardo a quanto detto sopra, risulta la leggenda del Re Pescatore, presente in molti romanzi legati al Graal (sebbene con alcune varianti). In una di queste, si narra che il Graal, ricercato dai più valorosi cavalieri del Re, il quale desidera, attraverso il suo ritrovamento, risanare la sua terra dalla maledizione cui è soggetta, nonché guarire egli stesso dal male da cui è stato colpito, viene “casualmente” rinvenuto da un giullare. Questi, sentendo che il Re aveva sete, aveva preso una coppa “capitatale sotto mano” e si era affettato a dissetare il sovrano. Accortosi di “quale Coppa” il giullare le avesse presentato, il re, meravigliato, aveva chiesto al giullare come avesse potuto rinvenire quello che i più valorosi tra i suoi cavalieri, da tempo andavano invano cercando. “Sapevo soltanto che avevi sete...” è la candida, quanto eloquente, risposta del giullare: egli ritrova il Graal (o forse sarebbe più esatto dire che il Graal si fa da lui ritrovare), perché egli desidera solo “sovvenire alla necessità del suo prossimo”, senza alcun altro fine o scopo, mettendo in pratica “sine glossa” l’insegnamento evangelico : “Avevo sete e mi avete dato da bere”.

“Il vero significato del Graal – scrive ancora Franco Corsi – è questa attenzione verso chi soffre, verso chi è più sfortunato, e non ha ancora udito il messaggio che Gesù ha portato sulla terra: Dio ti ama immensamente!” Per questo “non possiamo vivere nell'indifferenza: noi dobbiamo portare ad ognuno un conforto materiale e spirituale, con la nostra vita, con il nostro amore, con rinunce e gesti che facciano sentire chi ci circonda figli di uno stesso Padre. È l'unico Graal che possiamo ancora ritrovare. È l'unica coppa che possiamo ancora offrire a chi vive accanto a noi”.

Se faremo questo, anche se il nostro apporto sarà “una goccia nell’oceano”, troveremo il Graal che guarirà la ferita del Re e porrà fine alla Waste Land (simboli entrambi del “deserto” interiore ed esteriore, causato dall’incapacità – tutt’ora vigente – di comprendere ed attuare il Piano di Dio sulla Creazione, in generale, e su ciascuno di noi in modo particolare). Solo aderendo al “progetto” del Creatore, l’uomo diviene “cavaliere del Gaal”, uno che, dopo aver posto Cristo a fondamento incrollabile della propria vita, porta Dio ad ogni uomo che incontra, non tanto a parole quanto con la sua stessa esistenza, essendo egli stesso “testimone vivente” dell’Amore.

Per giungere a tanto, però, è necessario porsi in cammino, “equipaggiati” di quella semplicità ed innocenza di vita e di quella “santa determinazione” che diviene cristiana perseveranza (poiché le difficoltà e le prove non mancheranno), che dà fondamento alla certezza di fede che le nostre povere forze saranno sorrette dall’onnipotente Amore di Dio.

Allora, alla domanda iniziale “cos’è il S. Graal?”, possiamo tranquillamente rispondere: è un Mistero d’Amore: è l’Amore di un Dio che si fa uomo per amore dell’uomo ed è l’amore dell’uomo che risponde a questo Amore, amando Dio e amando il prossimo.  

APPROFONDIMENTI