ETERNO ULISSE ALLA RICERCA DELLA SUA ITACA
Come tutti sanno, D’Annunzio non può certo essere annoverato tra i poeti cristiani.
Ciò nonostante, se è vero che la fede non illuminò la sua vita, è pur vero anche che, il pungolo della fede, intaccò ed accompagnò tutta la sua esistenza, esistenza che fu caratterizzata da
un’ansiosa e vana ricerca della felicità.
Alcune note biografiche ci aiuteranno a capire maggiormente la figura di questo grande poeta, la cui tormentata vita fu spesso “bollata” come “immorale” e le cui opere furono inizialmente “messe
all’indice”.
C’è da notare, innanzitutto, che, vita ed opera, azione e pensiero, in D’Annunzio furono un’unica cosa e la sua “filosofia di vita”, concretizzata in un’esistenza vissuta all’insegna “dell’eccesso” e
definita in vari modi (“neopaganesimo”, “niccianesimo fuori stagione”…) fece di lui il poeta del “Memento audere semper “ (“ricordati di osare sempre” – è uno dei motti dannunziani più noti ) e del
“Mori citius quam deserere” (“morire piuttosto che rinunciare” – motto che egli rivolse ai legionari abruzzesi nel Novembre 1920, quando la situazione a Fiume era diventata ormai
insostenibile).
Se da una parte, tali definizioni colgono, senza ombra di dubbio, un aspetto rilevante del nostro autore (almeno per ciò che riguarda il suo “modus vivendi”), dall’altra è pur vero che, nella sua
eclettica e vastissima produzione, si riscontrano anche pagine in cui fanno capolino sentimenti struggenti ed arcane tensioni le quali, anche se spesso solo “inconsciamente”, rimandano il pensiero
alla possibile esistenza di un “Oltre”.
D’Annunzio, dapprima, cercò la felicità in un estetismo esasperato, in un esaltazione sfrenata dei sensi e del piacere, ma, il piacere, idolatrato e portato all’eccesso, lo deluse, lasciando in lui
“un immensa tristezza”, quell’ “ oscura tristezza - per dirla con il protagonista de “Il Piacere” – che è infondo a tutte le felicità umane, come alla foce di tutti i fiumi è l’acqua amara”.
Così D’Annunzio, come “Andrea Sperelli, ammalato di egoismo estetico…, del Piacere… intende la vanità e la miseria e si sente attratto verso la grande salvezza” . Ma, anche in questa situazione
interiore di “disagio intimo”, il poeta, come il personaggio del suo romanzo, anziché volgersi alla fede, si lascia nuovamente ammaliare da un’ulteriore chimera e si volge “verso la vita multipla e
multiforme, vibrante, sonante, trascinante e verso la grande Arte rispecchiatrice dei fenomeni e delle passioni del mondo”.
È questo il periodo in cui D’Annunzio fa suo l’ideale nicciano del Superuomo.
Anche qui, però, nell’esaltazione incondizionata dell’ “io”, il poeta non trova la serenità desiderata ed incorre in una nuova delusione: il suo animo tormentato non raggiunge la pace desiderata, non
ottiene l’appagamento agognato. Dopo la fugace illusione, portatagli dal mito superomistico, il poeta si ritrova di nuovo “triste ed infelice”.
Attraversa, allora, una fase di “nostalgici rimpianti” intessuti di un certo “naturalismo panico” misto a riflessione interiore.
Sebbene l’idealità filosofica, insita nel mito del superuomo, non abbandoni mai completamente il nostro autore, egli si volge ora, per così dire, verso una maggior “interiorità”. Ne sono un esempio
le sue opere “La figlia di Iorio” (1904) e “La nave” (1906) dove D’Annunzio è convinto - parole sue - di aver “creato la tragedia cattolica e celebrato nell’una e nell’altra il trionfo della
fede”.
Effettivamente – come nota il Vicinelli - la storia di “Mila di Codro (ne “la figlia di Iorio”) si trasfigura quasi in un popolare mistero sacro nella condanna corale che il popolo infligge al
parricida, nei lamenti delle donne in quel senso diffuso di religiosità primitiva e di sacrificio istintivo che si conclude nell’eroica esaltazione di Mila”.
Si presenta, così, al poeta la possibilità di aprirsi alla fede, l’opportunità di poter arrivare a credere.
D’Annunzio stesso, in “Contemplazione della morte” (1912) ammette che, leggendo ad un amico una scena de “Le martyre de Saint Sébastien” (opera da lui scritta in francese durante il suo “volontario
esilio” a Parigi) sentiva crescere in lui una commozione religiosa e annota: “Credo che in quel punto la voce mi si spegnesse perché mi si serrava la gola. E allora un sentimento mai provato mi
scrollò le radici dell’essere, perché ad un tratto udii il suono di un pianto umanissimo che non avevo udito mai; tra quelle quattro mura deserte e lontanissime da ogni rumor del secolo udii il
profondo singhiozzo del “consumato amore” che cantò Jacopone, scorsi le medesime lacrime che avevano rigato il viso di Francesco in ginocchio dinanzi al Crocifisso di S. Damiano o errante intorno
alle mura della Porziuncola”.
D’Annunzio, in quest’opera, quasi “si confessa” quando, in un altro brano, dice: “Amico ho avuto molte primavere travagliate … So quel che significa la dimanda dei vostri occhi buoni, ma non so che
rispondere. Non dimeno mai, da che vivo, non ebbi un istinto e un bisogno di mutazione tanto profondi e agitati … “Mutar d’ale” … Mai Gesù mi fu più vicino, e mai n’ebbi un senso tanto tragico.
Certo, da una limitazione può nascere la più vasta vita; e una mutilazione può moltiplicare la potenza, come sa il potatore …”.
D’Annunzio vorrebbe, dunque, “mutar d’ali” - e a ciò sembra aspirarvi sinceramente - ma si sente, al contempo, ancora profondamente “invischiato” nel suo disordine interiore.
Per giungere a quell’agognata “purificazione”, invece, come lo stesso D’Annunzio riconosce, necessitava la personale e volontaria adesione a quella “limitazione” da cui “può nascere la più vasta
vita” e l’accettazione di quella “mutilazione” che “può moltiplicare la potenza”.
In un certo senso, è come se, la volontà e l’intelligenza del poeta non riuscissero a cooperare con la Grazia divina che faceva capolino nella sua esistenza e poiché, come insegna S. Tommaso,
“Credere è un atto dell’intelligenza che, sotto la spinta della volontà mossa da Dio per mezzo della grazia, dà il proprio consenso alla verità divina” ”
Ma questo, esteriormente almeno (poiché l’animo umano resta, sempre e comunque, un “mistero insondabile”), nella vita del poeta, - nota Giuseppe Deferenza - non venne mai, e così il fortunoso
Ulissìde non condusse in porto la nave del suo inutile viaggio”, almeno, non su questa terra.
Sotto molti punti di vista, dunque, la vita di D’Annunzio, può essere vista come un’interminabile “Odissea”. Il nostro poeta, nonostante la sua apparente vita “dissoluta” era dotato, oltre che di
un’intelligenza acutissima, di un animo sensibilissimo che lo spingeva al desiderio di vivere ogni cosa ed ogni evento “in pienezza”, con tutto sé stesso: “anima e corpo”. In D‘Annunzio, perciò,
nonostante tutto, restò sempre e comunque insopprimibile un’inconscia tensione verso una certa interiorizzazione e, di conseguenza, un insaziabile “desiderio d’Infinito” anche se, la “patria beata”,
sede della pace e della tranquillità interiore cui tanto anelava, poté solo desiderarla e “sognarla” e così, anch’egli come il Foscolo, avrebbe potuto dire: “Tu non altro che il canto avrai del
figlio o materna mia terra” (cfr.: Foscolo: “A Zacinto”).