Un trattino intrigante 

 

Nell’espressione dialogo cristiano-ebraico mi sembra di cogliere un senso che è difficile definire adeguatamente: il trattino che lega i due aggettivi ha un carattere intrigante che l’uso, anche se ha un’origine recente, tende a far dimenticare. Questa espressione, infatti, è entrata timidamente nel linguaggio delle Chiese cristiane solo intorno agli anni ’70, certamente sotto la spinta della Dichiarazione Nostra ætate (28 ottobre 1965). 

Anche i Padri conciliari, che approvarono il paragrafo 4 di Nostra ætate, forse non si rendevano conto pienamente di ciò che avrebbero suscitato inserendo nel testo questo passaggio: 

Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo. 

Tuttavia si deve riconoscere che il termine “dialogo” emerge progressivamente all’interno di un cammino che ha il suo punto di partenza nei Dieci Punti di Seelisberg, un documento che segna una svolta storica maturata nel contesto della Conferenza internazionale contro l’antisemitismo, tenutasi nella città svizzera il 5 agosto 1947. 

Dall’epoca della separazione tra Chiesa e Sinagoga, il cosiddetto protoscisma, nella prima metà del II secolo, i cristiani non hanno mai neppure osato immaginare di poter parlare di dialogo cristiano-ebraico, poiché tra loro ha dominato sempre e solo un atteggiamento di «disprezzo» nei confronti degli ebrei (cf J. ISAAC, L’Enseignement du mépris, Fasquelle, Paris 1962). Tanto che lo stesso Jules Isaac (1867-1963), uno storico ebreo di nazionalità francese, bussando alle porte del Vaticano il 13 giugno 1960 per incontrare Giovanni XXIII, forse non riusciva a immaginare l’inizio di un dialogo tra ebrei e cristiani, nonostante la sua ricerca seria e appassionata. Si presentava, infatti, nelle vesti del perseguitato, della vittima di un antigiudaismo purtroppo di casa tra i cristiani ormai da quasi venti secoli: non riusciva neppure pronunciare il temine “dialogo” e forse non osava neppure pensare alla possibilità di un dialogo tra ebrei e cristiani. Osava però invocare con forza e con fiducia la fine dell’insegnamento del disprezzo e dell’odio. 

I Padri conciliari promulgarono una Dichiarazione che certamente aprì un cammino e che per questo motivo segna una svolta epocale. 

 

 

Un orizzonte ancora «sostitutivo» 

 

L’orizzonte teologico entro cui si muove la Nostra ætate n. 4, nonostante il suo carattere innovativo, è ancora tendenzialmente quello della “sostituzione”, ma i contenuti e il tono di questa Dichiarazione sono certamente nuovi rispetto alla precedente tradizione ecclesiale. 

L’invocazione rivolta da J. Isaac a Giovanni XXIII era stata accolta. Nonostante questi limiti legati alla sua collocazione e all’orizzonte teologico ancora “sostitutivo”, la svolta segnata dalla Dichiarazione Nostra ætate era ormai irreversibile e, soprattutto, imponeva alla Chiesa cattolica il superamento di alcune evidenti aporie. 

 

La teologia cosiddetta della sostituzione suppone una visione della Chiesa sul modello di Israele, per cui i due sono in concorrenza reciproca. L’affermazione che la Chiesa è il «nuovo e vero Israele» (Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, 21 novembre 1964, 9) comporta perciò il venir meno dell’elezione d’Israele che viene letta soltanto come preparazione e prefigurazione della missione della chiesa. 

Una svolta irreversibile… nonostante tutto 

 

Il carattere innovatore di Nostra ætate n. 4 non sta solo nei contenuti frutto di travagliati compromessi, ma nel movimento irreversibile che il documento ha suscitato e di cui sono testimonianza i documenti seguenti. La promulgazione di questo testo fu seguita in ambito cristiano e in ambito ebraico da commenti positivi per ciò che di nuovo esso rappresentava nell’insegnamento della Chiesa cattolica, ma anche da critiche per ciò che esso aveva tralasciato di dire, per il silenzio su alcuni temi fondamentali come la Shoà, la terra di Israele, le responsabilità dei cristiani nel secolare antigiudaismo. Bisognerà attendere il 1998 per un documento sulla Shoà - Noi ricordiamo -, il 12 marzo del 2000 perché Giovanni Paolo II chieda perdono a causa delle colpe dei cristiani che nel passato hanno perseguitato gli ebrei, un gesto seguito il 26 marzo dalla sua visita e dall’inserimento tra le pietre del Kotel ha-ma‘aravi, il “muro occidentale”, secondo un uso tipicamente ebraico, di un biglietto con una richiesta di perdono. 

Si deve però riconoscere che il carattere controverso di Nostra ætate ha forse favorito una ricerca aperta ad ulteriori sviluppi ermeneutici. Il percorso ermeneutico prosegue con Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare «Nostra ætate» del 1975, un testo seguito dieci anni dopo (1985) da Ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica. Sussidi per una corretta presentazione. Esso continua con Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoà (1998) sino alla domanda di perdono giubilare dell'anno 2000 e alla successiva riflessione dal titolo significativo Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato (7 marzo 2000). 

 

Il documento Orientamenti aiuta a riflettere sulla continuità storica dell’ebraismo e invita i cristiani a conoscere la ricchezza dei valori presenti nella sua tradizione, superando i pregiudizi del passato. I Sussidi sottolineano fortemente l’ebraicità di Gesù, rimarcando così la radice ebraica del cristianesimo. Noi ricordiamo esorta i cristiani a un cammino di conversione che, a partire dal dramma della Shoà, li porti a riconoscere gli atteggiamenti colpevoli di antigiudaismo che hanno caratterizzato per due millenni il loro rapporto con gli ebrei. 

 

Bisogna attendere però fino al 12 marzo del 2000 perché Giovanni Paolo II chieda perdono a causa delle colpe dei cristiani che nel passato hanno perseguitato gli ebrei, una richiesta di perdono seguita il 26 marzo successivo da un altro gesto, forse ancor più espressivo, presso il Kotel ha-ma‘aravi, il “Muro occidentale”, a Gerusalemme. 

 

Nel cammino ora delineato due momenti importanti sono rappresentati dai testi della Pontificia Commissione Biblica L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993) e Il popolo ebraico e le sue sacre scritture nella Bibbia cristiana (2001). Nel 1992 era stato pubblicato il Catechismo della Chiesa cattolica. 

 

La Dei Verbum, riportando al centro della vita della Chiesa cattolica, dopo quattro secoli di digiuno, la Parola di Dio, aveva comunque aperto un cammino, “inaugurando un’epoca nuova, dalle conseguenze imprevedibili” (Y.M. CONGAR, Diario del Concilio, vol. 1). 

Tra i segni di fecondità di questo documento vanno certamente annoverati i due documenti della Pontificia Commissione Biblica. Nel primo documento (1993), tra le forme di approccio alla Bibbia, compare per la prima volta in un testo del magistero della Chiesa cattolica un paragrafo intitolato “approccio mediante il ricorso alle tradizioni interpretative giudaiche” (I, C. 2). 

 

Una presentazione più ampia della tradizione interpretativa giudaica è contenuta nel successivo documento della Pontificia Commissione Biblica (2001). Vi troviamo un paragrafo (n. 9) su “Scrittura e Tradizione nell’Antico Testamento e nel giudaismo”, tre paragrafi dedicati ai metodi esegetici giudaici usati nel Nuovo Testamento (nn. 12-14) e un paragrafo (n. 16) sul canone ebraico delle Scritture. 

 

Il cammino aperto e suscitato da Nostra ætate ha avuto risonanze anche nelle chiese particolari. Nello stesso periodo anche le altre chiese cristiane, rivelano una presa di coscienza crescente dell’irrinunciabilità del rapporto con l’ebraismo nella definizione della loro identità. Questa progressiva consapevolezza ha continuato a manifestarsi anche nei decenni seguenti, per esempio, nella Dichiarazione di pentimento della Chiesa francese del 1997 e nel Catholics Remember the Holocaust della Chiesa americana del 1998. 

 

La chiesa francese, attraverso il Comitato episcopale per i rapporti con l’ebraismo, ha pubblicato, sempre nel 1997, un testo significativo, Lire l’Ancien Testament [Leggere l’Antico Testamento]. Il sottotitolo precisa che si tratta di un contributo ad una lettura dell’Antico Testamento per permettere il dialogo tra ebrei e cristiani. 

 

Si deve ricordare, infine, almeno il documento più recente, elaborato dalla Conferenza della Chiese europee (KEK) e dal Consiglio delle Conferenze episcopali europee nel 1999, la Charta Oecumenica: il n. 10 ha come titolo “Approfondire la comunione con l’ebraismo”. 

Le figure e i luoghi del dialogo 

 

Forse la presentazione sommaria di alcuni documenti delle chiese cristiane potrebbe far apparire il dialogo cristiano-ebraico come un fatto anzitutto, o addirittura esclusivamente, istituzionale. In realtà, occorre sottolineare con forza, come precisa Amos Luzzatto, che «il dialogo lo fanno gli uomini», ossia «persone con le loro esperienze storiche, psicologiche, che nel corso della vita hanno incontrato occasioni di crisi, talvolta di tensione con i loro stessi convincimenti, con tanti punti interrogativi a cui rispondere» (cf “Attese ebraiche dal mondo cristiano”, in P. STEFANI (ed.), Ebrei e cristiani: duemila anni di storia). 

Infatti, il cammino percorso nel dialogo delle chiese con gli ebrei non sarebbe pensabile senza la presenza e l’azione di alcune figure che da pionieri si sono impegnati per renderlo possibile. 

 

L’incontro con J. Isaac, da cui scaturì in Giovanni XXIII l’intuizione che il Concilio Vaticano II dovesse affrontare anche il problema del rapporto con gli ebrei, avvenne nel giugno del 1960, grazie ai contatti tra il segretario del papa, mons. Loris Capovilla e Maria Vingiani, fondatrice del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche). Nello stesso anno Giovanni XXIII affidava questo nodo del rapporto tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico al card. Agostino Bea, chiamandolo a presiedere il Segretariato per la Promozione dell’Unità dei cristiani. La Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo fu istituita solo nel 1974 all’interno di quello che ora si chiama il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. 

«A Milano, agli inizi degli anni Novanta – scrive G. Bottoni – Paolo De Benedetti. Ada Janes e io ci facemmo promotori di un piccolo gruppo che, con finalità esclusivamente pastorali, cercasse di favorire nelle comunità ecclesiali un doveroso processo di revisione della mentalità cristiana in rapporto all’ebraismo. Fin dagli inizi si fece in modo che il gruppo potesse avere una composizione interconfessionale: tra i primi vi aderirono il pastore luterano Holger Banse, il valdese Gioachino Pistone e il cattolico Renzo Fabris, che poi ci lasciò per la Gerusalemme celeste» (“Nota introduttiva”, in G. BOTTONI – L. NASON (edd.), Secondo le Scritture. Chiese cristiane e popolo di Dio). 

 

R. Fabris, primo presidente del SIDIC (Service International de Documentation Judéo-Chrétienne), di cui fu tra i fondatori (1971), fu definito dall’amico Paolo De Benedetti, senza timore di esagerazioni, “il nostro Jules Isaac”. 

 

Secondo Elena Bartolini, docente di Giudaismo, «gli inizi del dialogo fra cristiani ed ebrei in Italia si potrebbero simbolicamente raffigurare a partire da un provvidenziale – quanto casuale – incontro fra lo stesso Fabris e rav Elia Kopciowski, futuro rabbino capo a Milano, avvenuto durante un viaggio ….verso Israele nel luglio del 1958» (B. SALVARANI, Renzo Fabris. Una vita per il dialogo cristiano – ebraico). 

 

È di Fabris la prima intuizione circa l’importanza dell’istituzione di una giornata dedicata a richiamare continuamente la memoria della “realtà vivificante dell’incontro tra le chiese e il popolo d’Israele” (1983, durante la Sessione di formazione ecumenica organizzata dal SAE). 

Questa giornata sarà istituita dalla CEI nel settembre del 1989 e dal 1990 celebrata ogni anno il 17 gennaio come Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. La data scelta, proprio alla vigilia della Settimana per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio), non è certamente casuale perché sottolinea in modo profetico che il cammino di unità tra i cristiani può nascere solo a partire da una riscoperta del loro legame intrinseco e vitale con l’ebraismo. Essi hanno, infatti, la necessità di un dialogo con Israele per riscoprire la loro stessa identità. Solo ponendosi in ascolto di Israele i cristiani possono capire il significato della sequela dell’ebreo Gesù, colui che ha confermato, insegnato con autorità e vissuto la Tôrāh, annunciandola alle genti, e ha interpretato e fatto comprendere il senso della sua vita alla luce delle Scritture di Israele. 

 

L’amicizia fraterna e i rapporti con padre Bruno Hussar, fondatore del Villaggio della pace, Nevè Shalom – Waahat as-Salaam, agli inizi degli anni settanta, nel quale convivono ebrei, cristiani e musulmani, lo portò a promuovere l’associazione italiana degli Amici di Nevè Shalom – Waahat as-Salaam, sorta nel 1991, di cui divenne il primo presidente proprio negli ultimi mesi della sua vita. 

 

Un lungo elenco di figure meriterebbe di essere qui ricordato per il contributo dato al dialogo cristiano-ebraico; mi limito a citare Paolo De Benedetti, Martin Cunz, Francesco Rossi De Gasperis, Pietro Rossano, P. Francesco Fumagalli, Daniele Garrone, Mauro Pesce, Elena Bartolini, Piero Stefani. 

 

Alla figura del card. Carlo Maria Martini, alla sua statura intellettuale, alla sua competenza biblica, ai suoi rapporti internazionali e al suo magistero si deve la crescita della diocesi di Milano come luogo particolarmente significativo del dialogo cristiano-ebraico. Lo documentano il rapporto costante, cordiale con l’allora rabbino capo di Milano rav Giuseppe Laras, la cui leale e tenace fiducia nel dialogo con il mondo cristiano deve essere certamente riconosciuta. 

Non è certamente casuale che a Milano, oltre che a Roma, si siano svolti i due sinodi che hanno preso in seria considerazione e tracciato un percorso al dialogo cristiano-ebraico. Se a Roma si è fatto sentire l’influsso delle personalità di mons. Riva e di mons. Rossano, a Milano è stata certamente decisiva la presenza del card. Martini 

 

Nel dialogo ebraico-cristiano non potevano ovviamente non avere un ruolo fondamentale le figure di alcuni ebrei: rav Elia Kopciowski, rav Elio Toaff, rav Giuseppe Laras, rav Riccardo Di Segni, rav Benedetto Carucci Viterbi, rav Joseph Levi, rav Sergio J.Sierra, rav Alberto Sermoneta, Nathan e Mirjam Ben Horin, Amos Luzzatto, Lea Sestieri, Giacoma Limentani, Stefano Levi Della Torre, e molti altri che hanno profeticamente creduto possibile il dialogo ed hanno lavorato per costruirlo. 

 

Non si possono poi dimenticare i gesti e i discorsi di Giovanni Paolo II: la sua visita a Oswiecim-Brzezinka, al campo di sterminio di Auschwitz e Birkenau (1979), il suo incontro a Mainz con i rappresentanti dell’ebraismo tedesco (1980), la sua visita e il suo discorso al Tempio Maggiore di Roma (1986), il suo incontro in Polonia con i pochi ebrei superstiti della comunità sterminata dai nazisti (1987), il suo ingresso nel recinto dell’Umschlagplatz a Varsavia, da dove partirono i vagoni piombati (1999), la richiesta di perdono (Roma, S. Pietro-2000) e il gesto al Muro occidentale (2000) già ricordato. 

 

Più recentemente (2000), un gruppo di intellettuali ebrei americani ha formulato nel documento Dabru Emet [“Parlate con sincerità” cf Zc 8,16 ed Ef 4,25], sottoscritto a titolo personale, alcune significative considerazioni riguardo ai cristiani. Riconoscendo che il cristianesimo negli ultimi decenni ha radicalmente abbandonato i suoi pregiudizi antiebraici, Dabru Emet ha riassunto in otto brevi tesi un punto di vista ebraico sui cristiani e sulle relazioni con loro. 

 

Se è certamente vero che il “dialogo lo fanno gli uomini”, è altrettanto vero che alcune figure con le loro intuizioni originali e con la loro passione per il dialogo hanno dato vita a esperienze, a incontri e, soprattutto, ad una ricerca condivisa che ha trovato diverse forme di espressione. Perciò accanto alle figure è importante ricordare i “luoghi” in cui il dialogo cristiano-ebraico ha potuto trovare uno spazio per essere concretamente vissuto e per crescere. Spesso le figure e i luoghi del dialogo hanno saputo precorrere i tempi e con la loro ricerca hanno ispirato i documenti ufficiali delle chiese. Senza queste figure e questi luoghi i documenti non avrebbero potuto tradursi in una nuova prassi ecclesiale. 

 

Si deve peraltro riconoscere che questi ambienti, in cui la riflessione si è sviluppata e approfondita, hanno avuto e, per tanti aspetti continuano ad avere un carattere borderline perché il dialogo cristiano-ebraico, con la novità di approccio e di linguaggio che esso comporta, fa tuttora fatica ad essere recepito nella base delle chiese e negli stessi pastori. 

 

Un superamento della deriva, provocata dalla teologia della sostituzione, che ha portato i cristiani a contrapporre Primo e Nuovo Testamento e a leggere il Nuovo in modo viziato dall’antigiudaismo, nonostante i documenti di molte chiese cristiane, fatica a entrare nella mentalità dei pastori e dei fedeli e negli stessi ambienti accademici. 

 

Le Amicizie ebraico-cristiane sono sorte come libere associazioni di persone che intendono promuovere e approfondire la conoscenza e l’amicizia tra ebrei e cristiani, nel riconoscimento e nel rispetto della loro diversa identità e nella rinunzia a qualsiasi forma di proselitismo. La prima associazione fondata in Italia è quella di Firenze, che è anche una delle prime nate in Europa (1950): essa nasce in seguito a un incontro di Giorgio La Pira con Jules Isaac. Il primo gruppo di Amitié judéo-chrétienne [Amicizia ebraico-cristiana] si era costituito a Lione nei primi mesi del 1948 contemporaneamente alla pubblicazione di Jésus et Israël da parte di J. Isaac. 

 

L’Amicizia ebraico-cristiana di Firenze è rimasta l’unica fino agli anni ottanta, poi ne è sorta una seconda a Roma (1982) seguita da una terza ad Ancona. In seguito questa associazione è nata a Torino (1986), poi a Ferrara e a Napoli (1987), e, più recentemente, a Cuneo, a Mondovì e nell’alto Garda. Dal 1988 le Amicizie si sono riunite nella Federazione che è affiliata all’ICCJ (International Council of Christians and Jews) che comprende trentotto associazioni di trentadue nazioni diverse. 

 

Il SIDIC (Service International de Documentation Judéo-Chrétienne) è un’associazione e, nello stesso tempo, un centro di studi e di documentazione. È stato fondato nel 1965 a Roma, su richiesta di un gruppo di esperti e di padri del Concilio Vaticano II, per dare seguito a Nostra aetate sull’atteggiamento della chiesa nei confronti delle religioni non cristiane. Fin dal principio il SIDIC, affidato in modo particolare alle cure della Congregazione di Nostra Signora di Sion, ha cercato di promuovere la conoscenza, la comprensione e la stima reciproca tra ebrei e cristiani, ha contribuito a rendere noto il patrimonio che il cristianesimo e la cultura occidentale hanno ricevuto dal popolo ebraico e a diffondere lo studio della tradizione ebraica, sottolineandone il legame con la fede cristiana e l’importanza per tutta l’umanità. 

 

Le sorelle e i fratelli della Congregazione di Nostra Signora di Sion sono chiamati a testimoniare la fedeltà di Dio alle promesse che nel suo amore ha fatto al popolo ebraico, la cui elezione non è mai stata revocata. 

 

Il gruppo redazionale della rivista SeFeR - dal termine ebraico che significa libro e, in particolare, il rotolo della Tôrāh - con lo scopo di approfondire e diffondere la conoscenza dell’ebraismo, di promuovere un approccio alle Scritture fatto in ascolto della tradizione ebraica e di migliorare le relazioni fra cristiani ed ebrei. «La casa di Maria a Milano aveva sempre una porta spalancata verso via Boccaccio, e il cuore rivolto a Gerusalemme» (cf P.F. Fumagalli, Roma e Gerusalemme). Si tratta di Maria Baxiu che Fumagalli conobbe dopo la guerra del Kippur. Essa deve essere ricordata come «un punto di riferimento luminoso per molti giovani desiderosi di cominciare la salita a Sion» e come fondatrice della rivista SeFeR. Attività principale del gruppo è la pubblicazione del periodico trimestrale Studi Fatti Ricerche abbreviato in SeFeR. La redazione è formata da cristiani ed ebrei, i collaboratori sono cristiani ed ebrei e a cristiani ed ebrei è indirizzato il suo discorso. 

 

L’Associazione culturale QOL, che ha sede a Novellara (RE), costituisce ormai da ventidue anni, sia attraverso la rivista che ha lo stesso nome, che attraverso le attività che promuove, una “voce” significativa nel dialogo cristiano-ebraico: qôl, infatti, è un termine ebraico che significa appunto “voce”. Essa intende essere uno spazio di dialogo interreligioso ebraico-cristiano-musulmano, nel quale tutte le voci possano esprimersi in totale libertà affinché il dialogo interreligioso non sia messo a tacere dalla violenza che scuote il nostro tempo, che non intende arrendersi alla perversa logica dello "scontro di civiltà”. 

 

La Libreria Claudiana di Milano è una libreria valdese che ha sviluppato da oltre un decennio un ampio settore di pubblicazioni riguardanti il mondo ebraico: dai testi della tradizione di Israele ai saggi storici, dalle grammatiche alla narrativa, fino alle problematiche del dialogo cristiano-ebraico. Essa intende essere un luogo di informazione per persone di diverse fedi e culture, nel rispetto dell'identità di ciascuno, per una maggiore conoscenza reciproca. Si pone come punto di incontro e di dialogo per e nella città, nella convinzione che una maggiore coscienza delle radici ebraiche sia fondamentale per la stessa identità cristiana. 

 

Il Centro culturale S. Fedele, animato dalla comunità dei gesuiti di Milano, da alcuni anni ha inserito tra le sue molteplici attività una lettura biblica a due voci, cristiana ed ebraica, tenuta da diversi rabbini e biblisti italiani. 

 

Gli incontri ebraico-cristiani di Ferrara si configurano come lo sviluppo coerente e concreto dell’esperienza cristiana delle Acli (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani). La collaborazione con Casa Cini e con la Comunità ebraica ferrarese, tra le più prestigiose e antiche d’Italia, ha come obiettivi la conoscenza della tradizione ebraica vivente e la riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo. La documentazione dell’itinerario svolto è raccolta in alcuni testi pubblicati dall’editrice Morcelliana di Brescia. 

 

Il Gruppo interconfessionale Teshuvà, nato Milano agli inizi degli anni novanta, è composto da un piccolo gruppo di credenti di diverse confessioni cristiane. Il gruppo si è presentato alla seconda Assemblea ecumenica europea di Graz (1997) con una lettera intitolata “Domande per una Teshuvà [conversione] dei cristiani nei confronti dell’ebraismo” che esordisce così: 

Siamo cattolici e protestanti impegnati all'interno delle rispettive comunità per un processo di riconciliazione e di ravvedimento delle chiese cristiane nei confronti dell'ebraismo. Da alcuni anni lavoriamo assieme, convinti che tale processo possa (o forse debba) essere il banco di prova e di verifica del dialogo ecumenico intra-cristiano. 

 

I Colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli sono nati dall’attenzione alla tradizione viva d’Israele presente nell’ecumenismo camaldolese. Questa sensibilità si è intensificata negli anni post-conciliari sfociando nell’organizzazione annuale dei Colloqui a partire dal 1980 animata per molti anni da padre Innocenzo Gargano. L’idea, nata nel contesto di una Sessione nazionale del SAE, trovava l’appoggio e l’incoraggiamento del rabbino Riccardo Di Segni, allora già molto noto negli ambienti ecumenici italiani. Lo scorso dicembre i colloqui sono giunti alla XXX edizione. Il monaco Matteo Ferrari, che da due anni ha ricevuto l’eredità di padre Innocenzo, è riuscito a coinvolgere nella preparazione i rappresentanti di tutti i gruppi che hanno reso e rendono il dialogo ebraico-cristiano possibile in Italia, nonostante le difficoltà di questi ultimi anni. L’incontro è stato così una riuscita occasione per fare il punto della situazione del dialogo in Italia nello sguardo al passato e nell’apertura al futuro. 

Il carattere asimmetrico di un rapporto 

 

Recentemente la Chiesa cattolica, affrontando il problema della Costituzione europea, ha sottolineato con insistenza l’importanza di inserire un richiamo alle radici ebraico-cristiane dell’Europa. Ancora una volta “il trattino”, che sembra unire ebrei e cristiani, si presenta intrigante e può diventare addirittura ambiguo. Su questo tema rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, si è espresso con chiarezza. (cf “Progressi e difficoltà del dialogo dal punto di vista ebraico”, in Chiesa ed ebraismo oggi. Percorsi fatti, questioni aperte ): 

Il “trattino” non deve inoltre far dimenticare il carattere asimmetrico del rapporto ebraico cristiano. A questo proposito rav Riccardo Di Segni afferma: 

…….l’asimmetria è legata all’essenza delle due fedi: per il cristiano è impossibile una fede che non sia radicata in quella originaria di Israele, ma nella quale si manifesta l’incarnazione; per l’ebreo proprio quell’incarnazione è negazione della fede originaria. Per il cristiano l’incontro con l’Ebraismo è la riscoperta delle radici della sua fede; per l’ebreo l’incontro con il Cristianesimo è la scoperta di una diversità inserita nelle sue radici. Teologicamente, il cristiano non può fare a meno di Israele; l’ebreo, se non vuole negare la propria fede, deve fare a meno del Cristianesimo. 

Questo discorso sull’asimmetria strutturale e oggettiva esiste, ma può essere ridimensionato a partire da una prospettiva storica. Su questo tema si è espresso con originalità e chiarezza Massimo Giuliani nella relazione tenuta all’ultimo Colloquio di Camaldoli. Egli tende a rivalutare quell’asimmetria «percepita e soggettiva, che proprio dal punto di vista storico ha visto il giudaismo in profonda dipendenza psicologica e politica dalla cristianità, per i ben noti rapporti di forza tipici delle relazioni tra minoranze e maggioranza». 

 

Massimo Giuliani aveva iniziato la sua relazione – che aveva come titolo “I temi del dialogo ebraico-cristiano” – affermando che in realtà esiste un unico tema, ossia il dialogo stesso. Egli esprime una convinzione con cui mi trovo in piena sintonia: «Personalmente sono convinto che il dialogo non sia solo un metodo ma già un valore; non un semplice “mezzo per” ma già un fine in se stesso; non una “via a” ma il luogo stesso in cui trovare l’altro da noi e trovare noi stessi grazie al confronto, all’ascolto e alla dialettica con questa alterità. […] La grande novità del dialogo ebraico-cristiano – post-Shoah e post-Nostra Aetate – è che ha rimesso in movimento, in un vortice di natura ermeneutica, la questione dell’identità e dell’auto-definizione di entrambe le tradizioni religiose…». 

Un cammino ancora da percorrere 

 

In questi anni, precisamente dal 2008, i rapporti tra il mondo ebraico e la Chiesa cattolica hanno subito un raffreddamento improvviso a causa dell’introduzione di una nuova versione della preghiera per gli ebrei presente nella liturgia del venerdì santo del messale latino preconciliare, ripristinato come possibilità da Benedetto XVI nel luglio del 2007. Essa ha un’invocazione in cui si chiede per gli ebrei che “Dio e Signore nostro [riferito al Padre] illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini”. La reazione degli ebrei ha provocato delle risposte autorevoli da parte del card. Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei cristiani, e del card. Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, che hanno precisato il senso dell’invocazione, chiarendo che essa non vuole affatto indicare un atteggiamento della Chiesa cattolica diverso da quello inaugurato da Nostra aetate. 

 

Successivamente la revoca della scomunica del vescovo lefebvriano Richard Williamson, dichiaratamente antisemita, ha suscitato reazioni risentite da parte del mondo ebraico. 

 

Infine, poche settimane prima della sua visita già da tempo programmata alla Sinagoga di Roma (17 gennaio 2010), Benedetto XVI ha firmato il decreto che riconosce le “virtù eroiche” di Giovanni Paolo II e, a sorpresa, anche di Pio XII il cui cammino verso la beatificazione si era già più volte incagliato nelle polemiche e negli interrogativi storici su un suo presunto silenzio di fronte al dramma della Shoà. 

 

Sono note a tutti le reazioni che questa decisione ha provocato tra gli ebrei soprattutto perché essa precede l’apertura dei documenti degli Archivi Vaticani relativi al pontificato di Pio XII. Solo la lettura dei numerosi documenti concernenti questo periodo storico, infatti, potrà permettere un giudizio obiettivo sui silenzi del Papa. 

 

Mi sembra importante almeno una considerazione. Si può non essere d’accordo del tutto o in parte con le reazioni del mondo ebraico, ma si deve riconoscere con ferma chiarezza che un autentico dialogo comporta sempre un ascolto attento e senza pregiudizi delle ragioni dell’altro. Altri atteggiamenti tradiscono la causa del dialogo con il mondo ebraico e minano alle radici la possibilità che esso possa continuare. I valori in gioco, anche in ordine ad una comune testimonianza di fronte al mondo su temi come la giustizia, la pace, il rispetto della creazione, sono di tale importanza da richiedere con forza che il dialogo ebraico-cristiano possa continuare, superando questo momento di crisi. 

 

Perché ciò possa avvenire occorre che i cristiani abbiano il coraggio di lasciarsi inquietare e provocare dalle affermazioni, oggi più che mai attuali, del card. Carlo M. Martini (in Verso Gerusalemme): 

L’amore per Israele non è un’opzione per i cristiani, bensì un imperativo teologico che condiziona l’annuncio della salvezza. Nello stesso tempo dobbiamo rispettare l’identità di fede della comunità d’Israele, riconoscendo che il piano misterioso di salvezza, nel quale siamo stati inseriti, riguarda sempre anche il popolo dell’alleanza mosaica. 

 La consapevolezza storica dei drammi che hanno colpito il popolo ebraico deve suscitare in noi un senso di profonda solidarietà e condurci – afferma ancora il card. Martini - fino «alla confessione umile delle nostre complicità, ripudiando ogni forma di antisemitismo e guidandoci sul cammino della teshuvà». 

 

Mons.Luigi Nason, diocesi di Milano